Considerato un tempo paese modello lo Stato ebraico è ora risucchiato in una dimensione estremista. A fianco di Netanyahu sono gli ultranazionalisti radicali che violando per decenni le leggi dello Stato hanno preso il sopravvento
Il procuratore della Corte penale internazionale (CPI) ha battuto un colpo contro Benjamin Netanyahu. Per il primo ministro israeliano l’accusa di aver commesso crimini di guerra e contro l’umanità è qualcosa di molto simile a un pre-verdetto. Storico se non ancora giudiziario. Il mandato di arresto chiesto per lui come per i capi di Hamas lo pone in una posizione ancora più vicina al punto di non ritorno. Prima c’erano state le innumerevoli manifestazioni di protesta di centinaia di migliaia di israeliani per la sua politica, a cominciare dal tentativo di sottomettere il potere giudiziario. Poi, dopo l’attacco di Hamas del 7 ottobre, era stata la comunità internazionale a raggelare di fronte alla violenza con cui uno Stato, quello israeliano, e non un gruppo terrorista come Hamas, stava consumando una sistematica vendetta contro i palestinesi, soprattutto i civili.
Atteggiamento, quello del governo guidato da Netanyahu, che ha portato sempre più paesi a evocare di fronte alla Corte internazionale di giustizia (CIG) il rischio di genocidio del popolo palestinese. Uno dopo l’altro decine di Stati si sono affiancati al Sudafrica in questa denuncia: dalla Colombia alla Turchia, all’intero blocco che riunisce i 51 paesi dell’Organizzazione della Cooperazione islamica. A seguire, nei giorni scorsi, Spagna, Irlanda e Norvegia si sono aggiunti ai 140 paesi che hanno deciso di riconoscere unilateralmente lo Stato palestinese. Nell’isolamento crescente a livello internazionale, Netanyahu ha dovuto registrare anche l’irritazione dell’amministrazione americana. Con Biden che, pressato dal suo partito, ha alla fine deciso di approvare una limitazione delle forniture militari a Israele. Dopo il massacro di Gaza, che ha scatenato proteste senza precedenti nell’ultimo mezzo secolo nelle università americane, la Casa Bianca teme il “disastro umanitario” che un assalto a Rafah dell’esercito israeliano provocherebbe tra le centinaia di migliaia di palestinesi, soprattutto donne e bambini, ridotti alla condizione di dannati della terra.
Ciononostante Netanyahu intende andare avanti. Ignora e quasi schernisce un presidente come Biden preoccupato oggi dell’impatto sulla sua campagna elettorale della guerra asimmetrica in corso, come ieri lo era di garantire appoggio incondizionato a Israele. E che pure in questo passaggio drammatico è pronto a difendere il leader contestato definendo “oltraggiosa” la decisione della Corte dell’Aja. Anche per questo il premier dello Stato ebraico si sente al di sopra delle critiche e delle accuse, perché convinto di essere dalla parte giusta della Storia. Una Storia che ha contribuito a forgiare nei quattro decenni di attività sulla scena politica israeliana, guidando per sei volte il governo, con la benevola protezione di Washington. Una Storia che porta il suo stesso avversario politico, Benny Gantz, a controaccusare la Corte penale dell’Aja per difendere quello che al resto del mondo appare indifendibile: “Lo Stato di Israele ha intrapreso la strada più giusta della guerra dopo un massacro da parte di un’organizzazione terroristica contro i suoi cittadini. Israele combatte nel modo più morale della storia, rispettando il diritto internazionale e disponendo di un sistema giudiziario indipendente e forte“. Quasi l’invocazione di correità da parte di chi potrebbe candidarsi a guidare Israele alle prossime elezioni.
Come si spiega? Cosa è successo a Israele? La settimana scorsa si è posto il quesito il New York Times, che per anni ha osservato la tendenza, divenuta poi deriva, nella quale si è ritrovato a precipitare un paese un tempo modello. Il titolo e il sommario dell’inchiesta dicono molto, “The Unpunished: how Extremists Took Over Israel – After 50 years of failure to stop violence and terrorism against Palestinians by Jewish ultranationalists, lawlessness has become the law”.Si tratta di un’inchiesta ponderosa, condotta da giornalisti investigativi che per anni hanno scavato nella realtà politica israeliana.
Le conclusioni a cui giungono sono clamorose e inquietanti. Abbiamo alle spalle mezzo secolo di comportamenti illegali, rimasti in gran parte impuniti, che hanno spinto una forma radicale di ultranazionalismo al centro della politica israeliana. Il cuore di tutto è nell’azione eversiva dei coloni rispetto alle stesse leggi dello Stato. Polizia, esercito, perfino il leggendario Shin Bet si sono arresi di fronte alla forza di un movimento radicale, su base religiosa, capace di costruire intorno alla sua azione una rete di complicità e protezione più forte degli organi dello Stato. Un deep State, si potrebbe definire, che ha fatto da sponda all’attività sovversiva di leader intenzionati a far fallire qualsiasi negoziato, a cacciare i palestinesi dai territori contesi, a rendere impotenti i governanti impegnati nei processi di pace. A prefigurare l’omicidio di chi aveva sottoscritto gli accordi di Oslo, come il primo ministro Yitzhak Rabin.
Una inchiesta, quella condotta da Ronen Bergmann e Mark Mazzetti, frutto delle interviste con un centinaio di funzionari del governo israeliano, in carica e ex, compresi quattro ex Primi ministri, che ha consentito di tracciare la rete dei responsabili dell’attuale situazione israeliana. Dai fondatori dei movimenti che in patria o negli Stati Uniti sostenevano la creazione del “Grande Israele”, agli autori delle stragi nelle moschee, ai generali, ai magistrati, ai rabbini e ai politici che li hanno difesi e sostenuti. L’impunità, che dà il titolo a questa tragica pagina di storia contemporanea, ha riguardato personaggi ricorrenti nei momenti più torbidi della vita di Israele. Fanatici arrestati, giudicati, condannati per reati gravissimi, accusati perfino di omicidio. “Alcune di queste persone ora governano Israele. Nel 2022, appena 18 mesi dopo aver perso la carica di primo ministro, Benjamin Netanyahu ha ripreso il potere stringendo un’alleanza con i leader di estrema destra, sia del Partito del sionismo religioso sia del Partito del potere ebraico”.
I personaggi in questione sono Bezalel Smotrich e Itamar Ben-Gvir: il primo è l’attuale ministro della Sicurezza nazionale, il secondo è ministro delle Finanze. Quando ha formato il governo più a destra della storia israeliana, ricorda il New York Times, Netanyahu ha pubblicato un elenco di obiettivi e priorità, inclusa una chiara dichiarazione secondo cui l’ideologia nazionalistica dei suoi nuovi alleati diventava la stella polare dell’esecutivo: “Il popolo ebraico ha un diritto esclusivo e inalienabile su tutte le parti della terra di Israele”. Il 7 ottobre 2023, e la sete di vendetta che ha scatenato, era ancora lontano.