Entro il 2030 il Pil indiano supererà quello della Germania e del Giappone. Un explorit economico che accresce il potere di attrazione del paese da sei settimane alle urne. Sullo sfondo di antiche contraddizioni e nuove sfide
L’India si confronta quotidianamente con sfide titaniche, inimmaginabili alle latitudini occidentali. Soprattutto se affrontate, anno dopo anno, mantenendo un paese-continente all’interno di un quadro di regole democratiche, un “lusso” che Deng Xiaoping si poté risparmiare.
Nel 1951, per le prime elezioni dell’India indipendente, il Times di Londra osservò, con malcelata acidità, che sarebbero state le prime ed ultime elezioni. E, tuttavia, quelle che l’India sta tenendo in queste settimane sono le diciottesime da quell’anno lontano… Il miracolo indiano è composto da infiniti sub-miracoli: sullo sfondo di una diffusa spiritualità, vengono praticati decine di culti, di cui il confronto al calor bianco tra hindu e musulmani è solo il principale; il contrasto etnico-religioso-economico tra il Nord, di derivazione moghul ed il Sud, di estrazione dravidica, continua a segnare lo sviluppo del paese; la sconfinata densità demografica di alcuni Stati, in primis l’Uttar Pradesh, con i suoi oltre 200 milioni di abitanti, quanto e più del combinato di Germania, Francia e Italia; le 40 città che ospitano più di un milione di abitanti; le abissali divaricazioni sociali, con un Adani – un esempio tra i tanti – che in un giorno guadagna più di milioni di suoi connazionali, presi tutte assieme, nelle loro intere vite; un sistema federale estremamente sfilacciato, che relega il Governo centrale al ruolo di una lontana stellina. Eppur si tiene…
Un miracolo, si diceva. Che in tanti, troppi, danno per acquisito. Si pensi a cosa accadrebbe se il concetto di casta venisse sostituito da quello di classe. Sei lettere al posto di cinque, ma un universo di differenza: l’India esploderebbe istantaneamente, seppellita sotto le proprie contraddizioni. In un’epoca ibrida, in cui la geopolitica si scopre incapace di esercitare lo sguardo lungo, e quindi indossa gli occhiali da miope, nei circoli degli specialisti si sente spesso parlare di Secolo cinese o, da ultimo, di Secolo indiano. È più probabile, invece, che quello di cui è già passato un quarto sia quel Secolo di nessuno, di cui aveva scritto una quindicina di anni addietro, con molto fiuto, Charles Kuphan, già consigliere del Presidente Bill Clinton (No One’s World).
Ma non è quello il metro giusto per valutare l’India: comunque si definisca il tempo in cui viviamo, l’India si è conquistata il pieno diritto di avventurarvisi nel plotone di testa degli esploratori. E non solo per il suo PIL che, avendo lo scorso anno superato quello britannico, si accomoda al quinto posto tra le grandi economie, con vista sul quarto, quello tedesco, e sul terzo, quello giapponese, con sorpassi previsti entro la fine del decennio. Dieci anni orsono l’India, nel momento in cui il Primo Ministro Narendra Modi veniva eletto, si accingeva ad entrare nella “top ten” dell’economia mondiale. Goldman Sachs prevede che l’India diventerà la seconda economia mondiale entro il 2075 e l’autorevole Martin Wolf del Financial Times suggerisce che entro il 2050 il suo potere d’acquisto sarà del 30 per cento superiore a quello degli Stati Uniti. Dopo tante false partenze, in pochi credevano che l’elefante indiano avesse finalmente indossato la casacca dello sprinter.
Perché è tanto difficile prendere le misure dell’India? Perché essa non si lascia incapsulare nei sound bites dei convegnisti di Davos e di Cernobbio? Perché è la patria del senso universale di ”oneness”, che non può essere compreso solo in termini di geopolitica o geoeconomia; è allo stesso tempo troppo e non abbastanza nella scala classica di potenza. Al contrario, l’India va fotografata con una pellicola a lunga esposizione, altrimenti lo scatto risulta mosso. L’Economist, nella cabina di regia di quella che fu la potenza coloniale, prende il rischio di sintetizzare e decreta che è giunto “the Indian moment”, fatto di dinamismo ed orgoglio nazionalista. Cui andrebbe aggiunta una peculiarità di cui gli inglesi sono poco dotati ma che invece abbonda tra gli italiani, la “jugaad”, ovvero l’arte di arrangiarsi, di trovare soluzioni innovative. Del resto, stiamo parlando del paese ove Gurchran Das scriveva all’inizio del secolo che “India grows at night, when the government sleeps”, suggerendo che il suo Paese cresce nonostante uno Stato debole ed inefficiente. E questo è un altro degli innumerevoli elementi che differenziano la caotica democrazia indiana dalla rigida autocrazia cinese.
Che l’elefante indiano proceda al galoppo non c’è dubbio: non c’è solo la crescita economica – che quest’anno supererà il 7 per cento – la lievitazione della classe media, l’urbanizzazione a tappe accelerate, la modernizzazione dell’apparato militare – la quarta spesa globale – , la corsia privilegiata presso Mosca e Washington, l’unica in grado di navigare tra Est ed Ovest, Nord e Sud. Si moltiplicano i primati: primo paese al mondo per esportazioni nel settore dell’ICT (il polo tecnologico di Bangalore vale 100 miliardi dollari e 250 entro la fine del decennio); terzo in quello dei farmaceutici; 25 degli amministratori delegati delle società S&P 500 sono di origine indiana, segno di una straripante vitalità, di cui abbonda il brillante sikh Ajay Banga, Governatore della Banca centrale; dividendo demografico – che durerà per i prossimi 50 anni – assicurato dai 600 milioni di giovani che non hanno ancora compiuto 25 anni di età (l’età media è di 28 anni, contro i 38 negli USA, i 39 in Cina e 46 in Europa); diffuso utilizzo dell’inglese come lingua veicolare; sistema legale (rule of law) indipendente; infrastruttura digitale in molti campi più avanzata di quella americana; riorientamento dalla Cina verso l’India di alcune grandi imprese transnazionali, a cominciare da Apple che, entro il 2030, produrrà in India il 50 per cento dei suoi IPhone; terza nazione consumatrice di energia, è già al quarto posto al mondo per capacità installata di energia rinnovabile. È significativo che molte banche indiane siano valutate più di quelle statunitensi: la HDFC Bank ha una capitalizzazione di mercato di 171 miliardi di dollari, la quarta società finanziaria più grande al mondo. Secondo Morgan Stanley l’India assicurerà – da sola – il 20 per cento della crescita mondiale da qui alla fine del decennio. Con 900 milioni di abbonati a Internet, l’India è il secondo Paese al mondo per numero di utenti, subito dietro la Cina. Per non parlare dello spazio che New Delhi si sta ritagliando nell’astropolitica – la corsa allo spazio – che avrebbe reso fiero Vikram Ambalaj, il von Braun indiano, i cui eredi hanno fatto allunare una sonda al Polo sud del nostro satellite, i primi al mondo, con l’equivalente del 6 per cento del bilancio spaziale americano. Senza mai dimenticare le dimensioni: ogni anno vengono venduti 5 miliardi di biglietti del cinema e 7 ferroviari: non stupisce che il New York Times abbia scritto che l’India non è solo la più grande democrazia del mondo, ma “the largest everything”…
Ma anche nel miracolo indiano sono disseminate delle trappole. L’inquinamento urbano è tra i più alti al mondo, e Delhi è oggi forse la capitale nella quale si respira l’aria peggiore del pianeta. Il vincolo imposto di formazione di joint-venture con partner locali scoraggia più di qualche grande azienda transnazionale dall’investire in India. La scolarizzazione di base è ancora insufficiente (6,3 anni), anche se ogni anno si laureano 1,5 milioni di ingegneri. Le tensioni religiose che vanno accendendosi rappresentano altrettante mine pronte a deflagrare. Senza contare che quella indiana rimane un’economia ancorata al settore dei servizi, più che a quello della manifattura, che invece assicurò la velocità di fuga alla Cina fabbrica del mondo: il Make in India di Modi (“from farm to factory”), che avrebbe dovuto far passare il contributo del settore industriale dal 15 al 25 per cento del PIL, si è incagliato al 20 per cento. Il vantaggio competitivo nel settore dell’ICT e dell’IA può creare lavoro solo per qualche milione di persone, insufficiente per evitare che il dividendo demografico si trasformi in un pericoloso boomerang, lasciando schiere di lavoratori nell’economia informale, come pudicamente viene definito il lavoro nero. Tenendo altresì presenti altri quattro handicap: meno di un terzo delle donne lavora; entro il 2030 entreranno nel mercato del lavoro oltre 100 milioni di persone (più di un milione al mese); il contributo di quel 40 per cento della popolazione dedita all’agricoltura produce solo il 15 per cento del PIL nazionale; si accentua il divario tra il nord ed il mezzogiorno del paese, con i 5 stati del sud in cui il partito di Modi, il BJP, è minoritario: vi si trovano le principali aziende internazionali, le star-up di maggior profilo, i campus delle grandi università.
L’India, quindi, è una fotografia che risulta comprensibile a seconda del filtro che si è utilizzato: per certi versi inclina alle tinte chiare e per altri a quelle scure. Tuttavia, non ci si deve far ingannare: nel mondo in preda alle policrisi descritte da Adan Tooze, in India prevale la voglia di futuro: il suo soft power conquista e continua ad ammaliare. E la strategia economica del Primo Ministro Modi – creazione di un grande mercato interno, investimenti nelle tecnologie di punta e nelle ICT, welfare digitale – sta funzionando ed è in sintonia con l’orgoglio del mainstream di una nazione giovane che crede nel proprio miracolo e nel proprio destino.
A proposito di futuro: il gruppo TATA, che nel 2021 rilevò la fallita Air India, ha finalizzato la più grande commessa della storia, acquistando o opzionando 220 Boeing e 250 Airbus, meritandosi l’imperitura riconoscenza dei Presidenti Biden e Macron. Entro il 2030, la classe media indiana spenderà 140 miliardi di dollari l’anno per viaggi all’estero, con 50 milioni di turisti, che saliranno ad 80 milioni nel 2040: valori che cambieranno i connotati dell’industria turistica mondiale…