Trump e Modi, America first & India first

Un articolo di: Daniele Mancini

Due uomini che si sentono investiti di una missione quasi divina a capo di due megapotenze. Una da un secolo, l’altra da pochi anni. Così diverse e con un obiettivo comune: contenere la Cina

Il ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca avrà conseguenze significative in tutto lo scacchiere dell’Indo-Pacifico, con scelte che potrebbero stravolgere gli equilibri sia strategici che economici di una regione che ospita alcuni dei principali motori dell’economia globale, ma che è anche una fucina di crisi. Crisi che, per ora, rimangono defilate solo per la convergenza degli sguardi di Cancellerie, osservatori e mercati sulle tante guerre che dilaniano il mondo, intrecciandosi ed amplificandosi a vicenda, da quella in Ucraina, a quelle a Gaza ed in Libano e il riscoperchiamento della polveriera siriana. Tutti conflitti regionali con ripercussioni globali. In India, l’incipiente Amministrazione Trump è stata accolta con malcelata soddisfazione. Non che Trump sia stato il primo, a Washington, a guardare all’India sia per il suo crescente peso specifico, sia per consolidarne il ruolo di contraltare alle ambizioni cinesi, definendo un rapporto privilegiato di peso geostrategico ed economico simile a quelli che gli Stati Uniti intrattengono con il Giappone e la Corea del Sud. Il sentiero era già stato aperto da Hillary Clinton, con il suo Pivot to Asia, ed allargato da Obama, unico Presidente americano ad aver vistato l’India due volte, elevando il legame bilaterale al rango di partnership strategica. Memorabile il suo discorso davanti al Parlamento in seduta straordinaria, nel 2010, concluso con un “Jay India” – “Viva l’India” – ancor oggi ricordato. Inoltre, il Primo Ministro Nerendra Modi, durante i suoi mandati, ha inanellato diverse viste negli Stati Uniti, coronate da bagni di folla, le ultime nel 2023 e 2024. Modi punta molto su Trump. Il rapporto con l’Amministrazione Biden è stato altalenante: buono ma non eccellente, pur avendo incardinato il rapporto con Delhi in un quadro multilaterale, con la formula del QUAD. Le frizioni non sono mancate, come quella sul Bangladesh, con Washington che ha sostenuto il colpo di Stato che ha rovesciato Sheik Hasina, alleata di Modi – non a caso fuggita in India – e che, di fatto, ha aumentato l’influenza di Pechino a Dacca. Le reciproche aspettative sono allineate. Modi auspica un ancor più deciso sostegno alla sua politica volta a mettere un cuneo nell’amicizia senza limiti sino-russa, motivo per il quale continua a mantenere i migliori rapporti con Mosca. Egli punta sul fatto che, se vi è un unico argomento che negli USA tiene insieme le molte anime in cui quel grande paese si va fratturando – Congresso, media, comunità dei think tanks, opinione pubblica – è quello della competizione strategica con la Cina. Torna alla mente l’iconica battuta del film Highlander: “ne rimarrà uno solo”.
Sull’altro versante, è prevedibile che la seconda Amministrazione Trump affiancherà se non sostituirà del tutto – come nello stile del “nuovo” Presidente – una più robusta dimensione bilaterale a quella multi-bilaterale di Biden. Per il Primo Ministro Modi, che si trova a suo agio con le relazioni transattive, non sarebbe un male, lui che dialoga a Mosca con Putin e a Kiev con Zelensky, presiede il G-20, tesse la tela con Washington ma siede tra i soci fondatori dei BRICS, un organismo ancora proteiforme ma il cui chiaro intento è quello di definire un nuovo ordine globale, alternativo a quello liberale. Modi, come Trump, è convinto che la competizione definitiva per il primato si svolgerà nel suo cortile di casa ed intende trarne profitto. Intanto sorride quando il Governatore della Banca centrale ed il Ministro delle finanze gli presentano i conti nazionali, ed ancor più guardando fuori dalla finestra, alla Cina in stagnazione economica, appesantita dalla bolla immobiliare e dal rinnovato dirigismo di stampo statalista di Xi. Trump e Modi hanno lo stesso approccio a molti dei grandi dossier transnazionali del momento. Non da ultimo sul cambiamento climatico: fumo negli occhi per il primo, solo lip-service per il secondo, auto-proclamatosi paladino del Global South, ma intenzionato a puntare ancora a lungo sul carbone ed il petrolio importato, a prezzi stracciati dalla Russia, per continuare a spingere il decollo indiano. Trump e Modi, oltre ad una naturale empatia personale, hanno più di un tratto caratteristico in comune: dalla consonanza di vedute nei confronti delle “rumorose” minoranze all’avversione verso i contrappesi tipici delle democrazie rappresentative. Sono, inoltre, accomunati dal mito dell’uomo forte che ha un rapporto diretto con le masse: “India First” per l’uno e “America First” per l’altro. Sono quindi a loro agio in una regione – guardando solo all’Asia –  che sovrabbonda di uomini forti, con il cinese XI ed il nord-coreano Kim Jong Un in testa. Infine, e non è poco, entrambi si sentono investiti di una dimensione soprannaturale, con Trump che ha dichiarato: “Dio mi ha protetto nell’attentato perché voleva salvassi l’America”, tallonato da Modi: “pensavo di essere un uomo biologico, ma non lo sono”.
La consonanza di vedute sarà facilitata dal fatto che Trump, con gli indiani, si trova bene: sconfitta Kamala Harris, indiana a metà, ha nominato a capo dell’FBI Kash Patel, cresciuto nel Queens ma figlio di immigrati indiani, colui che manifestato l’intenzione di “chiudere il Quartier Generale dell’FBI e trasformarlo in un museo delle cere”. Inoltre, ha un Vicepresidente, J.D. Vance, che è sposato con la figlia di immigrati indiani ed ha riannodato il rapporto con Nimrata Randhawa, detta Nikki e coniugata Haley, figlia di Ajit Singh e Raj Kaur Randhawa, colei che lo aveva sfidato per la Nomination nelle Primarie. Sono inoltre una legione i manager indiani alla guida di alcune delle aziende leader negli USA: da Sundar Pichar, amministratore delegato di Google e Alphabet, a Satya Nadella, CEO di Microsoft, da Ghantanl Narayen, CEO di Adobe Systems, ad Arvind Krishnai, Presidente e Amministratore Delegato di IBM: solo per citare quelli del comparto tecnologico. Un comparto sul quale punta l’economia americana per rallentare l’avvicinamento cinese e che si avvale di migliaia di tecnici formati nei prestigiosi Politecnici indiani, che rivaleggiano con – e spesso superano – il MIT ed Harvard.
E’ presto per vedere come evolverà, nel lungo periodo, la partita tra Cina e Stati Uniti ed in quale punto di flessione si incuneerà l’India: occorrerà prepararsi alle sorprese, perché i rapporti di forza nel mondo sono più che mai scivolosi. Basti vedere che il previsto sorpasso dell’economia cinese si è allontanato nel tempo, se mai avverrà. Archiviato, almeno per una lunga fase, ogni residuo multilateralismo – con Trump che si accinge ad uscire dai, o mettere la sordina ai, principali fori internazionali – si torna alla politica delle Grandi Potenze, cara agli autocrati vecchi e nuovi e prediletta dalla destra conservatrice americana. Ma senza un nuovo Congresso di Vienna in funzione stabilizzatrice alle viste…
Ampliando lo sguardo, non è, dunque, sul suolo europeo che si giocherà la partita definitiva per la supremazia globale. Non con la Russia che, come disse Obama, resta per l’establishment americano una potenza regionale, certo pericolosa, ma che alla fine si dovrà accontentare di una revisione dell’architettura di sicurezza del Vecchio Continente, un’architettura che, per Washington, è destinata, sempre più, a divenire periferica. La partita decisiva – tecno-strategica, economico-finanziaria, in una certa misura “culturale” – sarà quella tra i due giganti, le uniche superpotenze in un mondo ribollente di ambizioni ma povero di visioni e, ancor meno, di leader. E avrà luogo nell’Indo-Pacifico, caleidoscopio di rischi ed opportunità, di sfide, ancora tutte mal calcolate, fulcro di tutte le linee di tendenza dei prossimi decenni: crescita economica, esperimenti sociali, rivoluzioni tecnologiche, crescita e declino demografico, laboratorio di modernità, epicentro del degrado ambientale, buco nero dei diritti umani. Una regione che ospita il 60 per cento della popolazione mondiale e che, secondo l’OCSE, nel 2030 produrrà il 53 per cento del PIL mondiale, mentre il 90 per cento della futura classe media vi sarà stanziato. Sfide mal calcolate, dicevamo: chi avrebbe potuto immaginare il ritorno – sia pure per poche ore – della legge marziale nella democratica e strategica Corea del Sud, imposta da un Presidente con l’acqua alla gola? La democrazia è una pianta fragile che, sosteneva quel maestro che fu George Kennan, ha bisogno di molta cura. Ma ciò non vale solo per l’Asia.
Le pedine sembrano disposte sulla scacchiera – ma mancano le regole del gioco – per uno scontro per l’egemonia planetaria tra Washington e Pechino, centrato sull’Indo-Pacifico. Uno sguardo alla carta geografica lo conferma: vi è continuità, anche territoriale tra le varie crisi che si intrecciano in un enorme arco di crisi (altro che quello immaginato in funzione antisovietica, all’epoca, da Zbigniew Brzezinski, il Consigliere per la Sicurezza Nazionale durante la presidenza di Jimmy Carter), che si srotola dalle pianure sarmatiche (conflitto russo-ucraino) via Mar Nero e Caucaso (crisi georgiana), penetra nel Levante e nella Penisola Arabica (Libano, Gaza e Siria), si insinua nella regione del Monsone (Yemen, Afghanistan) fino ad arrivare a Taiwan (che fine farà con Trump, ossessionato dalla bilancia dei pagamenti ma assai meno dalla ormai non lontana supremazia tecnologica cinese?), via Himalaya, e al contrasto indo-cinese sulle vette dell’Himalaya. Più che un Risiko, è una riedizione del “Grande Gioco”, stavolta su scala globale. Ma il primo vedeva al tavolo giocatori navigati, che disponevano solo di moschetti, cavalleria e telegrafo, oltre al privilegio di avere il tempo per riflettere; mentre gli attuali, meno avveduti e con l’obbligo di reagire in tempo reale, di missili termonucleari intercontinentali, Intelligenza Artificiale e droni. Forse aveva ragione Mao, il Grande Timoniere, quando affermava che “grande è la confusione sotto il cielo e la situazione è eccellente” …

ex Ambasciatore d'Italia in India e presso la Santa Sede

Daniele Mancini