Tutte le potenze regionali, dall'Iran alla Turchia, dall'Egitto alla Siria, insieme ai loro alleati, hanno costruito una ragnatela fittissima di relazioni. In un puzzle di convenienze e complicità solo apparentemente contraddittorie
Il rispetto per la nozione di complessità consiglia cautela quando si tenta un’approssimazione analitica su una regione frutto di sedimentazioni storiche, interessi strategici, sovrastrutture religiose e arretratezze culturali, per di più abitata da popolazioni giovani, oppresse e senza prospettive di vita. A questo deve aggiungersi un forte risentimento antioccidentale figlio del colonialismo europeo, dell’imperialismo americano e delle attuali prevaricazioni israeliane.
Come altrove, anche in Medioriente i fattori identitari sono lingua, etnia, colore della pelle, religione (e sottofamiglie), i cui intrecci sono al servizio di satrapi locali e potenze esterne, in primis gli Stati Uniti con le loro nutrite basi militari.
La religione, messaggera di orizzonti messianici, occupa un posto centrale nelle identità mediorientali, vittima e insieme protagonista di fanatismo, arretratezze socioculturali e posture antimoderne, su cui prosperano oligarchie ecclesiastiche e secolari di ogni risma, mentre le classi subalterne sopravvivono nel vuoto di rivendicazioni sociali e coscienza politica.
La possibile uscita dal sottosviluppo si scontra con un’endemica instabilità politica, funzionale ai privilegi dei ceti dominanti. Invece di lottare contro la polarizzazione della ricchezza, la scarsità di lavoro e le misere prospettive, i ceti subalterni vengono sedotti nell’illusione di rivolte etniche o religiose, divenendo vittime di settarismi e sfruttamento migratorio. Il capitalismo transnazionale prospera anche qui sulle attività predatorie, sostenute dal bellicismo Usa, in complicità con le oligarchie locali.
Anche il terrorismo, filiazione di tale intelaiatura, affonda le radici nella frustrazione e nell’ingiustizia, frutto avvelenato delle interferenze neocoloniali, attratte dalle ricchezze regionali, ma insensibili al destino di quelle genti. Prevenire e neutralizzare i terroristi con efficacia, come pure occorre fare, non è sufficiente.
Nella regione della turbolenza, che dal Caspio al Mediterraneo giunge al Nord-Africa, la cognizione degli schieramenti sfida la logica aristotelica: Israele è contro i palestinesi, in verità più contro Hamas che contro l’Autorità Nazionale Palestinese (ANP). L’Egitto appoggia l’ANP, ma non Hamas, e ha relazioni distese con Israele. Hamas e Iraq hanno lo stesso avversario, Israele, ma non hanno buone relazioni tra loro. La Turchia non è insensibile all’agenda di Hamas, ma ha rapporti distesi con Israele. Hezbollah ha pessime relazioni con i paesi sunniti ed è alleata di Iran e Siria, a sua volta governata dalla minoranza sciita/alawita (che secondo alcuni non farebbe nemmeno parte dell’Islam, come i drusi libanesi o gli aleviti turchi), rimanendo rilevante nel contesto libanese.
L’Iraq è critica dell’Arabia Saudita (AS), ma vicino all’Egitto, che però ha buoni rapporti con Riad. Al-Sisi ha qualche problema con l’Iran, diffida di al-Assad, ma ancor più di Ankara (che infatti in Libia è schiarata sul fronte opposto). L’AS si riavvicina a Iran, Iraq e Siria (ma non a Hezbollah), ha rapporti pragmatici con Israele (meno, dopo gli eventi di Gaza), ma è sospettosa della Turchia. L’AS finanzia Hamas, ma è nemica dei Fratelli Mussulmani, i quali, pur coltivando agende nazionali diverse, sono compatti a favore di Hamas e contro Israele. Quest’ultimo è nemico di Hezbollah, che è sostenuto dall’Iran, il quale finanzia Hamas, che riceve denari soprattutto dalle monarchie sunnite ed è ostile sia ad al-Assad (protetto dai russi) che ai residui della cosiddetta opposizione moderata siriana. Quest’ultima, sostenuta a suo tempo da Stati Uniti, paesi del Golfo e AS, è poi confluita nello Stato Islamico, che sopravvive tuttora nel Nord-Ovest siriano. Teheran ha relazioni neutrali con al-Sisi (nemico di Hezbollah), viene da rapporti tesi con le monarchie del Golfo (ad eccezione del Qatar), sostiene gli Houthi yemeniti (sciiti zaiditi) aggrediti dall’AS senza mandato delle N.U. ma con l’aiuto americano. La Turchia è nemica di al-Assad, che l’Iran beninteso sostiene, sebbene Turchia e Iran siano legati da solidi legami per ragioni anti-curde (per entrambi nemici esiziali) ed economico-energetiche.
I curdi iracheni godono di forte autonomia (grazie all’esercito dei Peshmerga) e hanno rapporti distesi con Ankara, sebbene quest’ultima diffidi dei curdi come tali, tutti sostenitori del Partito Curdo dei Lavoratori (turco) in lotta annosa contro il nazionalismo turco. Per ragioni etniche i curdi iracheni, prevalentemente sunniti, sono ostili agli arabi iracheni-sunniti, e per ragioni etniche-religiose sono ostili anche agli iracheni-sciiti. In Iran – dove il 90% è sciita, ma solo il 50% di etnia persiana – i curdi sono divisi tra sunniti e sciiti, ma sognano tutti uno stato indipendente, quando le condizioni lo consentiranno.
Molti hanno ostentato la lotta contro l’Isis. Le monarchie del Golfo e gli americani, tuttavia, hanno puntato soprattutto a cacciare al-Assad e ridurre il ruolo di Iran e Hezbollah, in un cinico gioco con lo Stato Islamico. Nel Rojava, Ankara combatte i curdi siriani, calamite potenziali per i loro compagni turchi, uno scenario da incubo per un panturchismo in ritardo con la storia e incapace di riconoscere agibilità politica al 25/30% della popolazione del paese.
I sunniti, avversari degli sciiti (siano essi iraniani/duodecimani, alawiti, aleviti, ismaeliti, houthi o altro), sono a loro volta divisi tra loro: wahabiti contro salafiti, al-Qaeda contro governi sunniti; fratelli mussulmani contro altri fratelli e contro i wahabiti-sauditi; emiri, principi e sovrani religiosi o secolari tornano però alleati contro chiunque attenti ai loro privilegi di classe.
Sulla carta, gli Stati Uniti sono nemici di Isis e al-Qaeda (in verità a seconda delle convenienze), ma soprattutto nemici di Hamas e Hezbollah, entrambi avversari di Israele. Hezbollah è un gruppo terrorista per gli Usa, i quali distinguono il braccio militare da quello politico, e mantengono un ambasciatore in Libano, dove il Partito di Dio è al governo con Sunniti, Drusi e Cristiani. Hezbollah non è però un’organizzazione terroristica per europei e turchi.
Gli Usa perseguono la teoria del caos, tutt’altro che caotica tuttavia. Dividendo amici e nemici, tengono alto il valore del dollaro, vendono armi a chiunque e rafforzano la posizione imperiale con perenni conflitti. Essi sostengono al-Sisi e sono ostili alla Siria, dove la presenza illegittima di soldati Usa serve a sottrarre petrolio dai pozzi siriani. Gli stessi soldati che in Iraq garantiscono l’estrazione predatoria di petrolio da parte delle società petrolifere Usa, quale ripagamento dell’illegittima guerra anti-Saddam del 2003. A dispetto di ciò, l’Iraq è in buoni rapporti con la Siria, a sua volta amica di Iran e Hezbollah, tutti nemici degli Usa, i quali, da perenni alleati, sostengono le politiche oppressive israeliane in Palestina per ragioni strategiche (in caso di conflitti regionali) e interdipendenza (le lobby israeliane, in primis l’Aipac*, influenzano pesantemente media e politica americane**).
In tempi recenti, Russia e Turchia hanno costruito una buona armonia (persino sullo scenario ucraino). Cresce l’insofferenza della seconda, paese Nato, verso l’arroganza di Washington, sospettata persino di aver orchestrato il fallito golpe del 2016. Importando crescenti quantità di gas e petrolio russi, Erdogan ha costruito un buon rapporto con Mosca, la quale coltiva a sua volta il sogno di una crepa nelle relazioni Turchia/Nato-Usa.
Davanti a tale rompicapo, che fare?
Un sussulto che scaturisce dal buon senso, dall’etica politica e da quel po’ di diritto internazionale che le nazioni son riuscite a costruire al termine del secondo conflitto mondiale – e che gli Stati Uniti, considerandolo un ostacolo al loro dominio bulimico sul mondo, cercano costantemente di smantellare – vorrebbe che le potenze esterne lasciassero la regione, a cominciare dagli Stati Uniti, “la nazione voluta da Dio per governare un mondo irrequieto”, secondo l’esaltazione patologica della destra americana.
Solo allora, dileguate le interferenze (neo-)coloniali, si potrebbe sperare in un graduale equilibrio tra i paesi della regione e immaginare, sulla scorta di valori fondati sul progresso umano, una (ri-)costruzione delle loro impalcature istituzionali, mettendo al centro la pace e l’equità. Non è tutto, ma sarebbe molto. A questo fine, occorrerebbe però disporre di contrappesi politici ed economici (i Brics?), capaci di contenere l’egemonia unipolare americana che avvelena il pianeta.