Schiacciato tra i clamori di conflitti maggiori, in Europa e Medio Oriente, il lungo braccio di ferro sulla regione contesa tra Armenia e Azerbaigian si è appena concluso in maniera traumatica
Schiacciata tra il perdurante conflitto russo-ucraino e la ripresa devastante di quello israelo-palestinese, la lunga contesa tra Armenia e Azerbaigian per il Nagorno-Karabakh si è conclusa nella sostanziale indifferenza della comunità internazionale. Questa regione, abitata in larga maggioranza da armeni, ma collocata negli Anni Venti all’interno dell’Azerbaigian dalle autorità sovietiche, dopo il crollo dell’URSS riuscì – con una guerra vittoriosa – a rendersi indipendente de facto nel 1994 occupando anche alcuni territori circostanti ed etnicamente azeri. Si creò così una repubblica indipendente, non riconosciuta peraltro a livello internazionale, che riprese l’antica denominazione armena della regione, Artsakh.
In questo conflitto si sono scontrati due principi giuridici, quello dell’integrità territoriale degli stati e quello dell’autodeterminazione dei popoli. Confidando nella protezione di Mosca, alla quale Erevan è rimasta a lungo vicina nella sua sfera politica, economica e di sicurezza (entrando anche a far parte dell’alleanza militare a guida russa, la CSTO), gli armeni non hanno accettato una soluzione di compromesso alla quale il Gruppo di Minsk dell’OSCE ha lavorato invano per decenni. Un’intransigenza condivisa dagli azeri, che però in tutto questo tempo hanno sfruttato appieno le notevoli risorse energetiche del loro paese per conseguire una enorme superiorità economica, presto divenuta anche militare.
Il momento di svolta di questa vicenda deve essere visto nella cosiddetta “rivoluzione di velluto” del 2018 che a Erevan ha portato al potere un nuovo leader, Nikol Pashinyan, meno legato alla tradizionale alleanza con la Russia e rivolto piuttosto verso l’Occidente. Questo nuovo orientamento, simile a quello che la vicina Georgia porta avanti sin dal crollo dell’URSS e sostenuto soprattutto dalla parte più giovane della popolazione armena, non sembra aver portato risultati positivi a Erevan. In primo luogo perché Pashinyan non ha sfruttato l’enorme popolarità di cui godeva inizialmente per cercare un compromesso con Baku sul Nagorno-Karabakh. Inoltre, la geografia stessa ostacola l’avvicinamento all’Occidente, la strada verso il quale passa per la Turchia, il nemico storico dell’Armenia.
Per quanto più retorica che effettiva, la svolta filo-occidentale di Erevan è stata comunque poco gradita a Mosca, che non sostenne gli armeni quando – nel settembre del 2020 – l’Azerbaigian sferrò un vittorioso attacco contro il Nagorno-Karabakh. Il cessate il fuoco vide la perdita da parte armena di gran parte dei territori acquisiti nel 1994 e l’interposizione di una forza russa di peace-keeping.
Questo mancato intervento russo può essere spiegato con il fatto che l’aggressione azera non aveva colpito la repubblica d’Armenia, ma il Nagorno-Karabakh, che dal punto di vista giuridico appartiene all’Azerbaigian. Questa giustificazione non vale però per l’inazione russa degli anni successivi, quando Baku ha impunemente attaccato più volte il territorio della repubblica d’Armenia, occupando al suo interno piccoli territori strategici senza che Mosca intervenisse a protezione dell’alleato. Il disimpegno russo si è manifestato anche quando – nel dicembre del 2022 – l’Azerbaigian ha imposto al Nagorno-Karabakh un blocco completo che ha privato per molti mesi la popolazione armena di rifornimenti alimentari, energetici e medicinali.
Di fronte al venir meno della tradizionale protezione russa Erevan ha cercato nuove strade, ma muovendosi in maniera sempre più imprudente nei confronti di Mosca: dichiarando di considerare un errore aver affidato per decenni alla Russia la sicurezza del paese, rafforzando la collaborazione militare con gli Stati Uniti e infine aderendo alla Corte Penale Internazionale, il che determinerebbe l’arresto di Putin nel caso ponesse piede in Armenia. Erevan si è rivolta anche all’Unione Europea, che si è mostrata sensibile a questa richiesta di aiuto e ha inviato a marzo del 2023 una missione disarmata sul confine armeno a monitorare le azioni dell’Azerbaigian. Una novità di rilievo, ma del tutto inefficace, come ha mostrato il nuovo attacco portato da Baku nel settembre di quest’anno, non casualmente proprio nei giorni in cui aveva luogo una improvvida esercitazione militare congiunta armeno-americana che Mosca ha evidentemente percepito come una provocazione.
La resistenza degli armeni del Nagorno-Karabakh è stata pertanto spezzata senza che la Russia intervenisse. L’intera popolazione armena ha lasciato per sempre la regione, cosa del tutto comprensibile vista la completa assenza da parte di Baku di garanzie di autonomia e di sicurezza per le numerose persone coinvolte in questi decenni nella gestione politica e militare della repubblica di Artsakh, ormai dissoltasi.
Del resto, benché in Occidente – e in Italia in particolare – si presti poca o nessuna attenzione alla questione, l’Azerbaigian si trova agli ultimi posti delle classifiche internazionali per quel che riguarda le libertà politiche. Questo esodo rende possibile, tra l’altro, che Baku replichi nel Nagorno-Karabakh la politica di ‘genocidio culturale’ perpetrata nell’altra regione storicamente armena, il Nakhichevan, anch’essa attribuita a Baku in epoca sovietica, e dove l’intero patrimonio artistico armeno (decine di chiese e migliaia di khachkar, le croci di pietra così caratteristiche dell’arte di questo popolo) è stato distrutto negli ultimi decenni.
Tuttavia, per quanto doloroso sia il destino del Nagorno-Karabakh, a preoccupare oggi è la stessa sorte dell’Armenia. Stretta tra due paesi ostili e ben più forti come la Turchia (erede tra l’altro dello Stato che compi il genocidio del 1915, mai riconosciuto da Ankara) e l’Azerbaigian, l’Armenia si trova in una situazione geopolitica quanto mai difficile. Nell’incontro del 25 settembre di quest’anno, avvenuto non a caso proprio nel Nakhichevan, Aliev e Erdogan hanno rilanciato l’idea di creare un collegamento terrestre tra Azerbaigian e Turchia attraverso il territorio armeno. Questo punto era in effetti contemplato, sia pure in maniera poco chiara, nell’accordo che aveva posto fine al conflitto nel 2020. Ma riproporlo nella situazione odierna, nella quale il Nagorno-Karabakh non esiste più, costituisce evidentemente uno sviluppo quanto mai minaccioso verso l’Armenia.
A prescindere dalla valutazione della rischiosa linea politica filo-occidentale seguita, negli ultimi anni, dalla dirigenza di Erevan, si è senza dubbio creata una situazione nella quale la stessa esistenza della repubblica d’Armenia appare minacciata. Anche se la Russia continua per ora a mantenere una base militare al confine armeno-turco e l’Iran invita l’Azerbaigian a non usare la forza contro l’Armenia, questo paese si trova oggi sostanzialmente solo di fronte ad un Azerbaigian strapotente che potrebbe decidere di sfruttare la situazione favorevole potendo contare sul pieno sostegno della Turchia.
Alla luce di questa situazione pericolosa sarebbe assolutamente necessario che la sicurezza dell’Armenia, non più fornita dalla Russia, venisse garantita in forma nuova. In primo luogo da Stati Uniti ed Unione Europea, certo. Ma, nonostante gli appelli rivolti da Washington, Parigi e Berlino a Baku perché rispetti l’integrità territoriale dell’Armenia, si fatica ad immaginare che questo paese possa ricevere, in caso di aggressione, un sostegno occidentale paragonabile a quello che si è prodotto in difesa dell’Ucraina.
In questo senso, l’individuazione di una forma impegno collettivo a favore della sicurezza dell’Armenia che – senza escludere la Russia – coinvolga l’Occidente, ma anche grandi attori internazionali come la Cina e l’India, potrebbe costituire un importante banco di prova del nuovo sistema multipolare che sta faticosamente emergendo dalle rovine di quello unipolare a guida statunitense.