NATO no, sì, forse

Un articolo di: Alessandro Politi

Un dibattito surreale sulle intenzioni di Trump, qualora fosse rieletto. Il Congresso americano cerca di blindare la Nato da eventuali, futuri disimpegni. Con l'Europa in attesa di capire se dovrà provvedere alla propria sicurezza. Risultato: tutti procedono in ordine sparso al proprio riarmo

Evidentemente la NATO è un tema caldo, smentendo la fola che la politica estera sia un argomento noioso o inutile durante le campagne elettorali, come si può vedere nelle elezioni presidenziali statunitensi. Non serve il toto-presidente perché nel dibattito USA sull’Alleanza contano invece: i termini della questione, i mezzi e le scelte possibili per i diversi scenari.

Tra i termini rilevanti vi sono gli oneri tra gli alleati (che possono essere chiamati burden-sharing o shifting) e le priorità strategiche (Russia, Balcani e Regione del Mar Nero, Regione Sud della NATO, Indo-Pacifico).

I mezzi sono: strumenti legali, finanze, forze, influenza politica e comunicazione strategica. Infine, le scelte e gli scenari dipendono, almeno strutturalmente, dagli aspetti precedenti. La disputa sugli oneri risale al 1949, quando il Congresso pensava che il contributo degli Stati Uniti in termini di forze navali e di potenza aerea strategica sarebbe stato un buon corrispettivo rispetto ad un dispiegamento di robuste forze terrestri europee. Non fu così perché i paesi europei tutti erano stremati e Truman decise d’inviare forze terrestri ed aree tattiche.

Quindi è dibattito altamente politico e di rado oggettivo: confrontare i rapporti PIL/spesa per la difesa tra USA ed europei è fuorviante, perché i primi spendono una frazione del loro bilancio (ben al di sotto del pattuito 2%) per la difesa in Europa. Peggio, i soldi spesi nella difesa non si traducono automaticamente in concrete capacità di combattimento.

Una divisione del lavoro esiste. Le forze USA hanno un raggio d’azione mondiale, mentre quelle europee si concentrano sulla difesa dei confini europei della NATO o agiscono come ausiliarie fuori area, fornendo truppe di terra a fronte del sostegno logistico globale degli Stati Uniti. Il Pacifico, tranne gesti simbolici europei, resta un teatro gestito in prima linea da Washington.

Su questa base di buon senso pratico, appare piuttosto chiaro che gli alleati europei non possono permettersi il lusso di dilemmi strategici. Almeno quattro grandi Stati hanno perso sostanzialmente il loro status di grandi potenze dopo la seconda guerra mondiale e sono costretti a concentrarsi sul continente (Russia, Balcani e Mar Nero, Mediterraneo), con in più la cura secondaria di alcuni interessi meno vitali e più distanti, in Africa e nel Golfo.

Appare chiaro che, indipendentemente dal presidente, le priorità del governo statunitense sono due: riconsolidare la base socio-economica degli Stati Uniti e ostacolare la crescente potenza della Cina. L’attuale presidente ha dimostrato una grande cautela nei confronti dell’Ucraina e del recente conflitto a Gaza, proprio perché quelle due priorità sono e rimarranno fondamentali, piaccia o no. In ogni caso, tutti i presidenti continuano a credere che l’egemonia statunitense debba essere mantenuta praticamente per sempre.

Quali strumenti possono aumentare la coesione tra gli alleati? La dichiarazione congiunta del Congresso che dovrebbe prevenire i tentativi presidenziali di abbandonare, sospendere o ridurre l’impegno nella NATO è rassicurante, ma può essere rapidamente ribaltata o aggirata. Un presidente vincente potrebbe convincere il Congresso dopo la vittoria e, peggio ancora, la dichiarazione non copre scelte come la riduzione della leadership politica de facto, il taglio delle truppe o il ritiro dalla struttura militare integrata.

Le finanze e le forze sono leve potenti nelle mani degli alleati europei, a condizione che i risultati concreti si profilino entro 4-8 anni. Le forze impiegabili sono in linea di principio una carta migliore del denaro, perché si possono ridurre molte duplicazioni e sprechi tra gli eserciti europei. L’influenza politica è ancora fortemente condizionata, nei due sensi, dal consenso nelle deliberazioni della NATO. Nell’Alleanza tutto si decide per consenso, il che sfata l’idea che sia un passivo strumento di Washington. D’altro canto, l’Europa non ha una seria comunicazione strategica, nonostante le risorse profuse, per mancanza di guida politica forte. Ursula von der Leyen ha provato a fare una comunicazione “geopolitica”, con risultati altalenanti.

Gli scenari post-presidenziali dunque sono: ritirata, rimpasto ed emorragia.

Il caso peggiore è che gli Stati Uniti si ritirino dall’Alleanza, come hanno fatto con il Partenariato Trans- Pacifico (TPP); a quel punto ci sono due eventualità: la fine della NATO (una perdita secca per tutti) o andare avanti senza l’America. Andare avanti può essere un ripiego a lungo termine in attesa del ritorno degli americani (come è successo con Francia e Grecia, ritiratesi dalla struttura militare integrata), oppure una transizione a medio termine verso una concreta difesa comune.

In ambo i casi la priorità europea consiste in una deterrenza convenzionale credibile, con un gioco di squadra per l’Ucraina. Questo perché l’alternativa non può essere il classico “o burro o cannoni”, in quanto il burro è una condicio sine qua non per qualunque scelta politica. L’UE non può generare ricchezza sufficiente per le sue difese e simultaneamente per il riarmo e la ricostruzione ucraina: ci vuole una divisione di compiti tra l’Europa che, riarmando sé, ricostruisce Kiev e gli USA che riequipaggiano le forze ucraine. Tra l’altro, l’adesione di Kiev all’UE non può avvenire prima di almeno un decennio, se si vogliono un’economia europea e ucraina funzionali. Senza ciò, la sicurezza europea ed atlantica sarebbero fatalmente deboli.

In ambo i casi, i cinque principali Paesi europei (Francia, Germania, Italia, Spagna, Regno Unito devono avviare un coordinamento concreto su approvvigionamenti, sui bilanci e grandi decisioni di politica di difesa. In caso contrario, la sopravvivenza della NATO o della nascente difesa europea sarebbe del tutto impossibile; in ogni caso il ruolo degli Stati Uniti (pieno o residuale) nella deterrenza nucleare sarebbe una delle questioni più spinose.

Un’emorragia sarebbe il secondo scenario peggiore. In superficie tutto sarebbe più o meno uguale, ma la direzione politica, i contributi nazionali cruciali e, in modo graduale, le truppe verrebbero progressivamente ridotti da Washington. Se le intenzioni russe restano le stesse, è piuttosto improbabile che Mosca abbia i mezzi e la seria intenzione di attaccare qualsiasi membro della NATO. Ma, alla fine, la sicurezza europea sarebbe compromessa da rinnovate divisioni nazionalistiche, relative dispute di confine o “culturali”, e logiche pesanti interferenze russe.

Infine, lo scenario del rimpasto sembrerebbe l’alternativa migliore, il rassicurante “perché nulla cambi”: più forze europee dispiegate ai confini della NATO, più spese per la difesa da parte del Canada e degli alleati europei, più risorse statunitensi assegnate al Pacifico, con la ferrea garanzia dell’articolo 5.

Eppure, se la ricostruzione della sicurezza europea complessiva non sarà ripristinata da trattati di disarmo/trasparenza e seri accordi politico-militari tra i diversi attori strategici, l’Ucraina rimarrà una macina al collo dell’Europa. La terza guerra d’Ucraina aspetterebbe paziente oltre la collina e con essa una guerra mondiale nel Pacifico.

Direttore NATO Defense College Foundation

Alessandro Politi