Nucleare Usa: nuova dottrina vecchi incubi

Un articolo di: Alberto Bradanini

La preoccupazione all'origine della decisione di Biden riguarda la proliferazione nucleare. Ma la lettura del problema da parte del presidente americano uscente ignora gli antefatti che hanno portato al riarmo generalizzato. A cominciare dalla disdetta del trattato ABM per la limitazione dei missili nucleari voluta da Washington

Stando al New York Times 1 (NYT) del 20 agosto, J. Biden avrebbe firmato un documento classificato che rivede la deterrenza strategica Usa (Nuclear Employment Guidance, NEG) per far fronte alla minaccia nucleare di tre paesi tra loro coordinati (Russia, Cina e Corea del Nord). Non è certo la prima volta che l’intelligence Usa fa filtrare notizie sensibili, di solito in forma confusa e strumentale. D’altra parte, se ciò corrispondesse al vero, si tratterebbe di un lessico di per sé sufficiente a diagnosticare la grave patologia degli estensori del documento, tenendo conto che solo individui fuori di senno possono pensare di poter combattere (o magari vincere) una guerra nucleare, per di più contro tre nazioni congiunte, le quali poi non risulta abbiano intenzione alcuna di bombardare l’impero egemone! Dietro tale postura si nasconde, invero, la ben nota hybris imperiale, insieme agli eterni interessi dei fabbricanti di armi (nucleari o convenzionali fa poca differenza).
Venendo al dunque, la nuova dottrina sarebbe motivata dall’espansione dell’arsenale nucleare cinese, che secondo la NEG mira a raggiungere quelli americani e russi entro un decennio. Un approfondimento di tale delirio strategico sarà reso pubblico prima dell’uscita di scena di Biden. L’intento sarebbe quello di scoraggiare i paesi citati dal proseguire su questa strada, vale a dire la strada dell’indipendenza e dei loro legittimi interessi, e non quella del vassallaggio autodistruttivo, come i paesi europei. Mai che ai cupi analisti del Pentagono venisse in mente di proporre una conferenza di pace per la riduzione di quei micidiali arsenali.
Secondo il NYT, la partnership strategica Russia/Cina – con l’aggiunta di Corea del Nord e Iran, accusati di fornire a Mosca armamenti poi utilizzati in Ucraina – costituirebbe un campanello d’allarme, conducendo esse esercitazioni militari di routine, mentre la prima fornirebbe finanche assistenza ai programmi missilistici nordcoreani e iraniani.
Che sia Harris o Trump a entrare alla Casa Bianca, gli Usa (in realtà il partito unificato della guerra, Dem/Rep), secondo la NEG, saranno chiamati a gestire uno scenario diverso rispetto al passato, mentre, diversamente da quanto vorrebbe l’asfissiante propaganda occidentale, è ben chiaro che Mosca (a maggior ragione Pechino o Pyongyang) metterebbe in conto il ricorso all’arma nucleare solo se fosse in gioco la sopravvivenza, uno scenario fortunatamente lontano e improbabile.
La seconda ragione del revisionismo strategico Usa sarebbe conseguenza dell’evoluzione della strategia nucleare cinese. Secondo l’International Peace Research Institute di Stoccolma, nel gennaio 2024 la Cina possedeva circa 500 testate nucleari (410 nel gennaio 2023), un numero che Pechino intenderebbe gradualmente far crescere per avvicinarsi agli arsenali di Washington e Mosca. E la ragione di tale escalation, non v’è dubbio, è proprio la scelta Usa del containment cinese, in luogo di una convivenza bilanciata. Una nazione (gli Usa) che dispone di 6000 testate nucleare, di cui 1600 pronte all’uso, dovrebbe in realtà perseguire politiche di disarmo, non di costanti provocazioni che portano a un iperbolico riarmo.
La Corea del Nord, a sua volta, per la Cia disporrebbe di 60 ordigni nucleari (numeri invero gonfiati ma utili a far crescere il budget della Difesa, simili comunque a Pakistan e Israele). In proposito, è banale rilevare che Kim Jong-un ha appreso la lezione di Gheddafi e Saddam, vale a dire che il possesso dell’atomica costituisce la migliore assicurazione di sopravvivenza e resistenza contro il militarismo espansionista americano.
Ora, per meglio inquadrare lo scenario alla base della tematica nucleare, risulta utile gettare uno sguardo sintetico sui relativi trattati, multilaterali e bilaterali (Usa-Russia), vigenti o trascorsi.
Il principale patto internazionale è beninteso il Trattato di Non Proliferazione Nucleare (TNP, entrato in vigore nel 1970), i cui pilastri sono costituiti da: a) uso pacifico dell’energia nucleare; b) non proliferazione; c) disarmo. I paesi che possiedono l’arma atomica sono: Usa (circa 6.000 testate), Russia (oltre 6.000), Francia (450), Regno Unito (275), Cina (550), India (60/90), Pakistan (24/48), Nord Corea (2/15), Israele (almeno 90). Il Sud Africa vi ha rinunciato, Ucraina e Kazakistan le hanno consegnate alla Russia. I paesi che non aderiscono al TNP sono Pakistan, India, Corea del Nord, Israele e Sud Sudan. Oltre 40 paesi – tra cui Giappone, Canada, Brasile, Argentina, Germania/Olanda e altri – controllando il ciclo del combustibile, sono tecnicamente in grado di costruire un ordigno nucleare.
Tutti i paesi aderenti al TNP hanno il diritto di sviluppare il nucleare civile, sotto la supervisione dell’Aiea, l’Agenzia internazionale per l’energia Atomica (come fa, ad esempio, l’Iran). Il Trattato fa obbligo ai paesi che non possiedono l’arma atomica di non procurarsela, mentre i paesi aderenti che ne dispongono (Usa, Russia, Regno Unito, Francia, Cina) vedono riconosciuta la legittimità a possederla. Il TNP discrimina dunque platealmente tra due categorie di paesi, a beneficio tuttavia del contenimento della diffusione di tale arma letale. Va rilevato infine che, ai sensi dell’articolo VI del TNP, i paesi militari nucleari sono tenuti a promuovere accordi e/o iniziative per un disarmo nucleare generale, ma non lo fanno!
Veniamo ora agli accordi bilaterali Usa-Urss (ora Russia). Il 3 giugno 2002, il cruciale trattato ABM, firmato nel 1972 da Bnreznev e Nixon, che limitava numero e portata dei missili balistici antimissili, è stato denunciato da Washington con ragioni pretestuose. L’altro basilare accordo, il cosiddetto New Start, firmato a Praga nell’aprile 2010 da Obama e Medvedev. che stabilisce limiti ai missili nucleari balistici, è stato prorogato nel 2016 e nel 2021. È ora un azzardo immaginare che nell’attuale contesto esso possa essere rinnovato alla prossima scadenza nel 2026. Del resto, nel febbraio 2023 la Russia, pur non ritirandosi formalmente, ne ha sospeso l’applicazione, dichiarando di essere pronta a rientrarvi solo se gli Usa riconosceranno le preoccupazioni di Mosca. Sarebbe da sprovveduti, ad avviso del Presidente russo, che ispettori americani possano visitare i siti nucleari russi, come il Trattato prevede, mentre quel paese fornisce armi e assistenza militare all’Ucraina per distruggere la Russia.
Sulla carta, il New Start sostituiva i precedenti Start 1 e 2 (questo mai entrato in vigore) e il Trattato di Mosca del 2002 (Sort), decaduto nel 2012, e prevedeva che le parti non disponessero: a) più di 1550 testate nucleari; b) di una quantità di missili non superiori al 74% rispetto allo Start 1 e al 30% rispetto al Trattato di Mosca; c) non più di 700 tra vettori e bombardieri nucleari (limite poi esteso a 800 considerando i missili non puntati). Esso prevedeva anche ispezioni, scambio di dati, notifiche su armi strategiche e siti, e metodi di controllo. Tutto ciò è ora venuto meno.
Un altro fondamentale accordo, l’INF (Intermediate-Range Nuclear Forces Treaty), siglato a Washington l’8 dicembre 1987 da Reagan e Gorbačëv, che pose fine alla vicenda dei missili nucleari da USA e URSS presenti in Europa (gli SS-20 sovietici e, a seguito della doppia decisione NATO del 1979, gli IRBM Pershing-2 e i BGM-109 Tomahawk statunitensi) è giunto a fine corsa nel 2017, quando Washington ne annuncia l’uscita, accusando senza prove convincenti la Russia di averlo violato.
Persino il trattato sui cieli aperti (Open Skies), volto a promuovere trasparenza sulle attività militari, firmato nel 1992 ed entrato in vigore nel 2002, è stato denunciato dagli Stati Uniti nel maggio 2020, con accuse pretestuose alla Russia, che decide quindi di uscirne nel dicembre 2021.
Per finire, è utile citare il trattato per la proibizione delle armi nucleari (TPNW) – adottato alle Nazioni Unite il 7 luglio 2017 ed entrato in vigore nel gennaio 2021, dopo la ratifica dei primi 50 paesi – punta alla completa proibizione delle armi nucleari. Purtroppo, dei 195 paesi cui esso si rivolge (193 membri dell’ONU, più Santa Sede e Palestina), 66 non hanno partecipato ai negoziati, quelli nucleari militari (Stati Uniti, Russia, Regno Unito, Francia, Cina, Israele, India, Pakistan e Corea del Nord) e quelli legati ad alleanze militari con deterrenza nucleare (paesi Nato, a eccezione dei Paesi Bassi, Corea del Sud, Giappone, Australia). Tra i rimanenti, 70 hanno ratificato e 27 per ora solo firmato ma non ancora ratificato. Si è dunque ancora lontani dall’universalità di tale cruciale impegno.
Tornando alla nuova dottrina Usa, la Cina ha già espresso la massima preoccupazione per tale pericolosa deriva degli Stati Uniti, i quali alimentano una strumentale minaccia nucleare della Cina, che tra le potenze nucleari è la sola (insieme all’India) ad aderire al principio del “non first use” dell’arma atomica. La minaccia maggiore alla pace, secondo Pechino, proviene invece dagli Usa che con 800 basi militari sparse ovunque, a migliaia di chilometri di distanza, non hanno certo l’obiettivo di difendere le frontiere nazionali.
Per di più, in Ucraina gli Usa auspicano che la Russia risponda in forma inconsulta alle provocazioni Nato-Usa con un ordigno nucleare tattico limitato all’Europa, alienandosi in tal modo le simpatie del Sud Globale e mettendo in ginocchio l’economia europea. In Medio Oriente, invece, anche un conflitto allargato all’Iran e ad altre nazioni arabe/mussulmane non dovrebbe portare al coinvolgimento di Russia o Cina. Secondo la nuova dottrina nucleare americana è dunque in Estremo Oriente che si gioca la partita cruciale degli equilibri mondiali.
La scintilla di un ipotetico conflitto Cina-Stati Uniti, secondo la scuola realista, potrebbe accendersi nel mar Cinese Meridionale (per le varie rivendicazioni sulle isole Spratly e Paracel) o nel Mar Cinese Orientale (Cina-Giappone sulle isole Diaoyu-Senkaku), ancor più che su Taiwan. Gli Usa non hanno alcuna intenzione di allontanarsi dall’Asia-Pacifico. Ma gli imperi tramontano perché, a un certo punto, iniziano ad accumulare errori e ambizioni irrealistiche, perdendo il contatto con la realtà.
Quanto a un ipotetico conflitto Usa-Cina combattuto con armi convenzionali, a giudizio di molti analisti americani (J. Mearsheimer, D. Mcgregor, J. Sachs e altri), esso vedrebbe prevalere la Cina, a meno che gli Usa non ricorressero all’arma atomica, una decisione assai rischiosa beninteso per le note ragioni di reciproca distruzione, ma anche perché la Cina dispone di missili ipersonici oggi difficilmente intercettabili. Certo, gli Stati Uniti, pur privi di tali missili ipersonici, sarebbero sempre in grado di colpire il territorio cinese con missili lanciati dai sottomarini nucleari che incrociano nelle acque cinesi. Insomma, la fine del mondo, o quasi.
Questa è dunque, al momento, l’equazione che dovrebbero coltivare quei pochi decisori politici dotati di saggezza, o almeno di buonsenso, dopo aver sottratto il potere di decidere ai tanti generali Stranamore che in questo frangente sembrano guidare una locomotiva impazzita che porrebbe fine al genere umano.

Diplomatico, è stato Ambasciatore d’Italia a Teheran (2008-2012) e a Pechino (2013-2015)

Alberto Bradanini