Perché Trump può vincere di nuovo

Un articolo di: Andrew Spannaus

Tra pochi giorni l'America sceglierà il suo nuovo presidente. Decisione che avrà un forte impatto sulle relazioni internazionali: dalle guerre in corso alle sfide economiche. I sondaggi danno vicinissimi o addirittura alla pari Harris e Trump

A pochi giorni dalle elezioni presidenziali del 2024, l’esito della contesa tra Donald Trump e Kamala Harris è ancora incerto. Nonostante i difetti il candidato repubblicano, che usa modi offensivi e rifiuta di accettare i risultati di quattro anni fa, rimane decisamente in partita. Harris ha portato una ventata di energia alla campagna sul lato democratico, ma per lei restano vari fattori strutturali difficili da superare.
Dopo l’assalto al Campidoglio del 6 gennaio 2021, per un breve tempo sembrava che Trump potesse diventare una paria nella politica americana. Aveva oltrepassato la linea più sacra per una democrazia, cercando di ostacolare la transizione pacifica del potere. Eppure le critiche dei repubblicani a Washington sono durate poco. Hanno poi bloccato l’impeachment e hanno offerto sostegno all’ex presidente contro lo tsunami giudiziario in arrivo.
Da parte sua Trump ha deciso che doveva tornare alla Casa Bianca, sia per evitare le conseguenze legali delle sue azioni, sia per portare avanti la sua rivoluzione contro l’establishment del Paese. E lo ha fatto a modo suo: senza ascoltare i consigli di chi gli ha detto di moderarsi, ma contando sul fatto che milioni di americani sono ben contenti di vedere un candidato che non rispetta le convenzioni.
In realtà lo stile di Trump, fatto di esagerazioni e offese continue, è rischioso: i sondaggi dicono che piace poco ai moderati, che vogliono sentire più sostanza che insulti. Per questo il suo tasso di popolarità rimane in territorio negativo. In altre situazioni sarebbe una condanna, visto che Harris invece arriva più o meno alla pari tra favorevoli e sfavorevoli. Il vantaggio non è ampio, ma storicamente la popolarità è un fattore importante nel giudicare le prospettive di un candidato per la Casa Bianca.
Tuttavia, ci sono una serie di elementi strutturali che hanno permesso a Trump di rimanere agganciato a Harris, con uno svantaggio di appena 1-2 punti nel voto popolare, e una sostanziale parità negli Stati chiave che determineranno il vincitore attraverso il sistema dei grandi elettori. I tre più importanti di questi fattori sono l’economia, l’immigrazione e le guerre.
Sul primo punto, la situazione è paradossale. Joe Biden è stato, senza ombra di dubbio, un presidente di grande impatto in termini economici. Ha continuato sulla strada iniziata da Trump per contrastare la globalizzazione, migliorando le misure più approssimative adottate dal suo predecessore. I dazi e le guerre commerciali di Trump hanno rotto il ghiaccio nei confronti di politiche basate principalmente sul libero mercato, ma sono stati poco efficaci nell’obiettivo dichiarato di riportare le attività produttive negli Stati Uniti.
L’amministrazione Biden, invece, ha lanciato una nuova era di politica industriale, mantenendo alcuni elementi del protezionismo e aggiungendo forti investimenti pubblici. Con migliaia di miliardi di dollari ha dato il via alla costruzione di numerosi impianti produttivi, ha fornito aiuti diretti alle famiglie e ha cominciato a potenziare il sistema del welfare. È una direzione che, almeno per quanto riguarda la rinnovata enfasi sulle attività produttive, difficilmente cambierà nei prossimi anni, vista la volontà di vincere la competizione con la Cina.
Il problema, ben noto, è stato l’inflazione. In realtà la grande spesa pubblica ha contribuito solo in parte all’aumento dei prezzi – meno del 30 per cento, secondo gli studi – ma la crescita del costo degli alimentari e delle abitazioni ha messo di cattivo umore la classe lavoratrice americana. Così i repubblicani possono rievocare un periodo più tranquillo, prima di Biden, quando le cose sembravano andare meglio. Certo, in mezzo c’è stata la pandemia, ma la responsabilità ricade sempre su chi è al governo.
Anche sull’immigrazione l’orientamento dell’elettorato è cambiato. Pochi anni fa l’atteggiamento estremo di Trump poteva sembrare uno svantaggio, ma oggi, dopo la grande ondata di arrivi al confine Sud, lo aiuta non poco. Perfino gli abitanti delle grandi città governate dai democratici sentono il peso dell’incapacità dello Stato di gestire il fenomeno. Questo aggiunge un altro tassello alla sensazione di incertezza.
La “ciliegina sulla torta” dell’instabilità, per modo di dire, è la crescita dei conflitti internazionali. Trump può giustamente affermare di non aver iniziato nuove guerre quando era presidente.
D’altra parte il suo forte appoggio a Benjamin Netanyahu e il ritiro dall’accordo nucleare con l’Iran hanno contribuito alla situazione odierna nel Medio Oriente. Ma l’amministrazione democratica non è riuscita a intraprendere soluzioni diverse su questo punto. Piuttosto, Biden e Harris hanno perso parecchio sostegno a sinistra, tra i progressisti e soprattutto gli araboamericani, perché non hanno esercitato pressioni più forti su Israele. È un fattore che potrebbe essere decisivo per la corsa elettorale: se Harris, ad esempio, dovesse perdere lo Stato fondamentale del Michigan a causa dell’irritazione della grande comunità di provenienza mediorientale.
Infine c’è l’accusa di Trump ai democratici di portarci verso la terza guerra mondiale. Lui promette di porre fine subito alla guerra in Ucraina attraverso la diplomazia. Anche qui Harris si trova schiacciata tra due esigenze contrastanti. Non può smarcarsi dalla posizione dell’attuale amministrazione che fornisce aiuti a Zelensky, ma sa bene che anche a Washington, dietro le quinte, si parla sempre di più di una soluzione negoziata.
L’effetto complessivo di questi fattori è che l’elettorato americano percepisce una situazione di caos internazionale, che si aggiunge alle difficoltà interne dopo un periodo di grande incertezza. Questo permette a Donald Trump di superare le difficoltà legate ai suoi errori passati e al suo carattere, e di giocarsela con Kamala Harris fino all’ultimo voto.

Analista politico americano, Università Cattolica di Milano. Autore di Perché vince Trump (2016).

Andrew Spannaus