Polonia, trincea antirussa molto americana e poco europea

Un articolo di: Massimo Nava

Il riflesso condizionato di Varsavia, storicamente ostile a Mosca, ha trasformato il paese in prioritario avamposto della Nato. Restando tuttavia europeista a metà

Quando Napoleone arrivò trionfante a Varsavia non fu accolto come un invasore, bensì come un padre protettore della terra polacca. Fece promesse di indipendenza non mantenute, arruolò soldati che gli furono fedeli persino nell’esilio all’Elba e si prese come amante la bellissima contessina Maria Walewska. Questa sudditanza dei polacchi ai francesi aveva un solo senso: sentirsi al riparo dalla secolare minaccia russa.

La paura dei russi (poi dei bolscevichi e dei sovietici, infine ancora dei russi) ha segnato la storia polacca per secoli e fino ai giorni nostri ed è senz’altro questa la principale ragione per cui la Polonia – dalla fine del Patto di Varsavia fino all’ingresso nella Nato – si è trasformata nell’ avamposto difensivo dell’Europa. La Polonia si è sempre sentita parte della Mitteleuropa e del mondo occidentale, decisa a non essere quello che Milan Kundera definiva “occidente prigioniero”.

L’avamposto si è ulteriormente rafforzato dopo l’invasione dell’Ucraina. Quello polacco è considerato un esercito all’avanguardia, grazie a massicci investimenti che hanno avvicinato la spesa per la difesa al 4 per cento del Pil, quasi il doppio di quanto dovrebbero spendere i partner europei: la Polonia è il primo paese nella Nato in termini di percentuale del Pil speso in difesa.

L’aumento del budget porterà l’esercito polacco ad un raddoppio degli effettivi. E oltre a un ordinativo di carri armati dalla Corea del Sud, Varsavia riceverà dagli USA 32 aerei F35, un centinaio di carri armati Abrams e batterie di missili Patriot. Il tutto per una spesa di decine di miliardi di dollari.

La Polonia è diventato anche un hub logistico per l’afflusso e il transito degli aiuti militari provenienti da altri Paesi Nato e da Paesi che sostengono l’Ucraina senza esporsi direttamente, come la Corea del Sud. Le forze armate ucraine sono addestrate in Polonia per utilizzare i sistemi d’arma alleati. Un ulteriore passo avanti è stato annunciato il mese scorso dal presidente, Andrzej Duda, che ha dato la disponibilità ad ospitare armi nucleari sul territorio polacco. Armi che si aggiungerebbero a quelle stoccate in basi americane ed europee per ‘rafforzare il fianco orientale della Nato’.

Il presidente polacco ha messo in evidenza la minaccia rappresentata dal fatto che “la Russia stia militarizzando sempre più l’enclave di Kaliningrad e stia trasferendo armi nucleari in Bielorussia”. Anche se la proposta non trova il favore del premier Donald Tusk e dei partiti della coalizione civica che lo sostengono, essa dà comunque l’idea della sensibilità collettiva confermata dall’enorme sostegno che i polacchi hanno dato a milioni di profughi ucraini in fuga dal conflitto. Un sostegno in termini di sussidi, alloggi, posti di lavoro, permessi di soggiorno. E persino in termini di caccia ai disertori, dato che il governo si è impegnato a rispedire al fronte centinaia, se non migliaia, di giovani in età di reclutamento nell’esercito che si sono rifugiati in Polonia mescolandosi ai profughi.

Impegno per la difesa e braccia aperte all’Ucraina – anche in considerazione di vecchi legami e ambizioni egemoniche sulle regioni occidentali, cattoliche e filo europee – sono tuttavia in contraddizione con i processi politici e sociali che suscitano qualche interrogativo sulla visione complessiva del popolo polacco e delle sue classi dirigenti.

È storia recente la grande mobilitazione degli agricoltori che hanno bloccato il confine per protestare contro le importazioni di prodotti agricoli ucraini. La battaglia del grano è originata da evidenti danni economici, ma ha poco a che vedere con la solidarietà nei confronti dei “fratelli” ucraini. Allo stesso tempo, l’impegno civile a favore dei profughi ha suscitato irritazione per gli alti costi economici e sociali che pesano sulla maggioranza della popolazione. Questa inquietudine alimenta quei sentimenti antieuropei che non da oggi allignano negli strati provinciali e conservatori della società polacca, in cui pescano voti e sostegno i partiti della destra, i gruppi che propugnano l’uscita dalla Ue, gli ambienti antiabortisti, in contrasto con i propositi del governo che vorrebbe alleggerire la legislazione in vigore. Alla guida di Polexit c’è Stanisław Żółtek, un ultracattolico conservatore che ritiene la Polonia “sotto il dominio di francesi e tedeschi”. L’euroscetticismo fa proliferare movimenti alla destra di Diritto e Giustizia (PiS), il partito fortemente conservatore e nazionalista che ha guidato la Polonia negli ultimi anni.

Ma non c’è soltanto la minaccia populista nel controverso percorso di integrazione europea. L’ormai famoso articolo 7 – per cui Varsavia si scontra puntualmente con Bruxelles per violazioni dello Stato di diritto ed erosione dell’indipendenza del sistema giudiziario – resta un punto controverso, anche se i risultati delle ultime elezioni lasciano immaginare uno scenario più europeista e progredito. Una potenza militare emergente nel cuore dell’Europa, ma europeista a metà, sarebbe davvero problematica per il futuro della Ue, considerando che la “compagnia” euroscettica potrebbe allargarsi dopo le elezioni del nuovo Parlamento di Strasburgo.

Editorialista del Corriere della Sera

Massimo Nava