Si scrive ancora India ma si pensa Bharat

Un articolo di: Daniele Mancini

Un’altra Asia, accanto a quella della Pax Sinica e a quella delle affermate Tigri. Una potenza che esercita, con toni sempre meno sommessi, un ruolo chiave in tutte le crisi che stritolano il mondo

A che gioco gioca l’India-Bharat, nel Quadrilateral Security Dialogue – QUAD – con gli Stati Uniti e nei BRICS con Russia e Cina, con il suo Primo Ministro Modi che vede prima l’amico Putin e poi Zelensky, che abbraccia sorridente Biden ma compera petrolio e armi da Mosca? L’Occidente plurale a trazione americana non comprenderà mai appieno l’India, la sua astoricità intrisa di miti che si consolidano in realtà e come tale vengono percepiti, il suo pantheon straripante, le sue infinite alterità. Ma almeno dovrebbe fare lo sforzo di studiarla. Nell’interesse della sua stessa sopravvivenza come comunità di valori e destini ed entità geopolitica, per non essere derubricata a luogo geografico: l’Europa al limitare estremo dell’Eurasia, gli Stati Uniti annegati negli oceani che sempre meno pattugliano, arroccati a difesa del Rio Grande. Perché l’India è uno dei mondi destinati a popolare il nostro futuro prossimo, in cui coabitano fughe in avanti, strappi violenti, faglie di crisi, traiettorie di lungo periodo. L’India è un laboratorio in cui si sperimentano molte delle alchimie del mondo che verrà. Farebbero bene le legioni di politologhi e pundit che si occupano della Cina a gettare uno sguardo al di sotto dell’Himalaya. Tanto più che le sue innumerevoli contraddizioni non vengono occultate, bensì esibite.
Non che l’India, deposito di saggezza e giacimento di miraggi, sia sconosciuta in Occidente. Tutt’altro. L’India eterna ha sempre esercitato un fascino a tratti irresistibile: generazioni di giovani sono cresciuti leggendo Salgari e Kipling, stuoli di intellettuali studiando Freud, Schopenhauer ed Edward Morgan Forster, il celebrato autore di “Passaggio in India”: “l’India non è una promessa, è un richiamo”. E poi i Beatles e Bollywood, il sitar e la meditazione trascendentale, la medicina ayurvedica e lo hatha yoga. Le dobbiamo come minimo la chiavetta UBS e la nozione di zero, senza il quale non avremmo l’Intelligenza Artificiale. E di questo pregiudizio occidentale positivo l’India trae profitto, consapevole che, oggi, la potenza e il prestigio sono misurati al face-value: si conta per quel che si è. Per questo aggiunge frecce su frecce alla propria faretra. Ad esempio, utilizza e capitalizza con disinvoltura il soft power come strumento di proiezione ed acquisizione di egemonia, ciò che l’Occidente, ripiegato su sé stesso, non fa più.
Ma quell’India, molto amata ed alla quale si è molto perdonato, a differenza che alla Cina comunista, è costruita su un immaginario collettivo tanto seducente quanto stereotipato, ormai lontano dalla realtà di un paese che conosce una crescita economica e sociale travolgente, cui fanno da specchio sacche di spaventosa arretratezza. Un paese che ha i piedi ancora piantati nel XIX secolo – le sue centinaia di milioni di contadini – ma la testa già nella seconda metà del XXI, con i suoi global Indians.
Se l’Occidente aggiornasse le proprie cartine geografiche geopolitiche si renderebbe conto che il dharma strategico della Bharat del XXI secolo è la decostruzione, in salsa curry, del mondo come lo abbiamo conosciuto da Bretton Woods fino ad oggi, dell’idea che il Washington Consensus sia l’unica modalità funzionale di governo in un pianeta popolato da otto miliardi di abitanti, duecento Stati, trecento organizzazioni internazionali, decine di migliaia di ONG, migliaia di etnie. L’India è revisionista come lo è la Cina, porta avanti la sua azione con eguale determinazione, con i medesimi denti affilati, ma lo fa offrendo un volto sorridente. Si è creduto, alle nostre latitudini, che l’ambizione della nuova India fosse solo quella di sbarazzarsi del non- allineamento, figlio della non-violenza gandhiana, vista non più come suggestione visionaria ma remissività verso la potenza colonizzatrice.
Se si riscuotesse, l’Occidente, si accorgerebbe che sta crescendo, a passi da gigante, nel subcontinente, un’altra Asia, accanto a quella della Pax Sinica e a quella delle affermate Tigri, una potenza che esercita, con toni sempre meno sommessi, un ruolo chiave in tutte le crisi che stritolano il mondo, dalla guerra in Ucraina al riscaldamento globale, all’inflazione dovuta alla rarefazione dell’esportazione delle derrate alimentari. Un’altra Asia impegnata in una corsa forsennata verso uno sviluppo senza aggettivi, senza freni, che soffoca le sue città nello smog, che produce un quinto degli scarti globali di plastica, più di Nigeria, Indonesia, Cina e Russia assieme, un totale che riempirebbe 604 Taj Mahal…
L’ “India first” del Primo Ministro Modi – meno saldo di un anno or sono, a causa della mancata vittoria elettorale della scorsa primavera, che lascia presagire un suo strisciante logoramento – è un titano che si risveglia da un torpore secolare, proprio come una generazione or sono fece la Cina con Deng. Ma con un senso di urgenza accresciuto dal lungo letargo. Un colosso che non vuole legarsi le mani, che non desidera essere catalogato da una parte o dall’altra, non accetta più lezioni né ruoli fissi. Che si mantiene in equilibrio tra Washington, Mosca e Pechino, convinta che, alla lunga saranno queste e non lei, a fare un passo nella sua direzione. L’India non corre il pericolo di cadere nel trabocchetto della “Trappola di Tucidide”, perché sa guardare lontano.
La potenza indiana studia da superpotenza in the making, obiettivo da raggiungere, secondo i proclami del governo, entro il 2047, ad un secolo dalla sua indipendenza. Tuttavia, è più abile a farsi ascoltare e rispettare sui tavoli globali che nell’amministrazione del suo rissoso cortile di casa regionale perché, ritenendosi l’unico legittimo erede del British Raj, dalle cui costole nacquero Pakistan, Nepal, Bangladesh, Sri Lanka e Myanmar, il suo atteggiamento oscilla tra condiscendenza e mire egemoniche. Il che non passa inosservato a Pechino, che mira ad approfittarne.
Se l’Occidente fosse più attento eviterebbe di utilizzare metafore ormai datate come quella dell’elefante che ha messo le ali: le ali le hanno anche gli struzzi, i galli ed i pavoni, ma non volano. L’elefante asiatico invece vola, come un calabrone: sembra impossibile ma è così. L’India è uno Stato-Civiltà che ha inventato il gioco degli scacchi e non può essere sconfitta sul terreno dei sondaggi di opinione, con i sound-bites, gli strilli su X. Se la sua classe dirigente dichiara di essere intenta – tra i mille sorrisi ed abbracci distribuiti sulla passerella del G-20 di New Delhi – a proporsi quale porta-bandiera di quello che in tempi di Guerra Fredda si definiva Terzo Mondo ed oggi Sud Globale, va presa sul serio. Se nelle stanze dei suoi think-tank si disegnano le cartine geografiche di un polo asiatico a trazione indiana, va prestata attenzione. Non vanno liquidate come irrealizzabili fantasie di grandezza: lo si percepisce frequentando gli aeroporti di Addis Abeba, di Giacarta o Dubai, viaggiando sulle strade namibiane, accostandosi alle miniere di uranio del Niger, tra i grattacieli di Johannesburg. Un tempo vi si vedevano quasi solo cinesi, oggi non più: per due di loro c’è un indiano e quelli che erano solo umili prestatori di braccia, oggi sono diventati geologi, imprenditori, tecnici. Magari a qualcuno verrà in mente di chiedersi dove l’Occidente abbia sbagliato, se gli unici suoi rappresentanti, da quelle stesse parti, sono i diplomatici ed i turisti.
Se l’Occidente prestasse attenzione non si soffermerebbe più di tanto a criticare – peraltro con mille ragioni – il progetto di induizzazione di Modi, che si rivelerà non effimero ma fallimentare, se l’India vorrà rimanere uno Stato unitario. Scorgerebbe piuttosto che quello che è in ballo, a Mumbai, a Varanasi, a Chennai, è il futuro del concetto di popolo e nazione, incapsulati in uno Stato multietnico, multireligioso, plurilingue; tutto ciò che si affaccia anche all’orizzonte delle società delle nostre latitudini. Un azzardo affermarlo? Non suonano familiari alle nostre orecchie ed ai nostri occhi l’asfissiante burocrazia, la corruzione rampante, le scuole di eccellenza mondiale e quelle delle sterminate periferie, l’esodo dalle campagne ed il gigantismo dei ghetti urbani, le abissali differenze tra gli infoyes e gli infonots, la concentrazione dei grandi conglomerati industriali alleati con lo Stato, le sirene del suprematismo, i veleni del populismo iper-nazionalista, la paura del diverso, colui che a Mumbai come a Marsiglia prega rivolto verso la Mecca?
L’India dischiude, a passi affrettati, un orizzonte che ben presto ci coinvolgerà. Per questo parlavamo di laboratorio. Ma non è tutto: in India, “la più grande democrazia del mondo”, ove Modi ha cento milioni di follower su X, contro i trentatré di Biden, si discute della perdurante attualità del concetto di democrazia, in un mondo che ne tollera ormai solo a dosi omeopatiche: si può governare restringendo il suo perimetro, con quel tanto che basta che sarebbe sufficiente – e servirebbe da esempio – per molti paesi del Sud Globale, sempre più insofferenti alle reprimende occidentali?
In un’Asia che nel numero di maggio 2024 Foreign Affairs descriveva in preda al collasso della popolazione, i seicento milioni di Centennials indiani vivono lo stesso problema dei loro assai meno numerosi coetanei occidentali, ibernati nell’inverno demografico del Vecchio Continente: il muro di gomma della gerontocrazia al potere. Ma i Centennials indiani sono dinamici e fiduciosi quanto i nostri sono sfiduciati e passivi, inclini ad appropriarsi del loro futuro quelli, rassegnati questi. Il loro orizzonte è eminentemente urbano e segnato dalla realtà e dalle contraddizioni di una classe media che conta ormai svariate centinaia di milioni di appartenenti, che da un trentennio è motore di sviluppo della società, di confronto tra le varie anime del Paese e di raccordo con il mondo globale.
L’India corre…

ex Ambasciatore d'Italia in India e presso la Santa Sede

Daniele Mancini