Vista dal fronte occidentale per la questione Taiwan sembra solo questione di tempo. Una escalation con la Cina viene considerata inevitabile. Il complesso militare-industriale si prepara. Ma vista da Pechino la riunificazione con l'isola ribelle seguirà un altro percorso
Le elezioni presidenziali tenutesi a Taiwan il 13 gennaio scorso hanno decretato la vittoria di Lai Ching-te (William Lai), vicepresidente uscente della Repubblica di Cina (è questa la denominazione ufficiale di Taiwan). Lai, il cui insediamento è previsto per il 20 maggio, è l’esponente di punta del Partito Democratico Progressista (DPP) che ha governato l’isola negli ultimi otto anni.
La presidente uscente, Tsai Ing-wen, prima donna a vincere le elezioni, per di più per due volte consecutive (2016 e 2020), si era dimessa da presidente del partito lo scorso autunno dopo aver subito una secca sconfitta alle elezioni amministrative. Tsai non era comunque rieleggibile per limiti di mandato.
Per la legge elettorale taiwanese è dichiarato vincitore chi ottiene anche solo un voto in più degli altri candidati (sistema first-past-the-post). Lai diventa dunque presidente pur raccogliendo solo il 40,05% dei voti, poiché i suoi avversari hanno ottenuto, rispettivamente, il 33.49% (Hou Yu-ih, attuale sindaco di Taipei, del partito nazionalista, Kuomintang, KMT) e il 26.46% (Ko Wen-je, del Partito Popolare, TPP). I partiti sconfitti non erano riusciti ad accordarsi su un ticket di candidati, perdendo una storica occasione. Il tasso d’affluenza è stato del 71,86%, (-3,04 % rispetto al 2020) ed è la prima volta dal 2000 che il candidato vincente scende sotto la soglia del 50% dei voti.
Se queste elezioni fossero la chiave per sondare la volontà dei taiwanesi d’incamminarsi sul difficile percorso dell’indipendenza, si dovrebbe allora dedurre che tale volontà si è significativamente ridotta rispetto a quattro anni orsono. Non solo Lai viene eletto con il 40% dei suffragi, contro oltre il 50% raccolto da Tsai Ing-wen nel 2020, ma per di più il suo partito perde la maggioranza in Parlamento, rendendo macchinosa la gestione del paese e allontanando ancor più una prospettiva che il DPP, consapevole dei rischi, non aveva preso in seria considerazione nemmeno quando disponeva della maggioranza assoluta in parlamento.
A tale riguardo, la maggior parte degli analisti ‘indipendenti’ reputa che la sola evenienza che potrebbe spingere Pechino a prendere in considerazione l’ipotesi di utilizzare la forza – e comunque non si tratterebbe di una passeggiata poiché le forze armate taiwanesi dispongono di armi sofisticate forniti negli anni dagli Stati Uniti – sarebbe la dichiarazione d’indipendenza dell’isola. Ma per quale ragione la dirigenza taiwanese dovrebbe procedere su questa strada, attirandosi le furie dell’universo – un ipotetico blocco navale, distruzione di infrastrutture, morti e altre devastazioni – quando di fatto Taiwan indipendente lo è già? Ciò potrebbe accadere solo se la dirigenza taiwanese dovessero cedere alle lusinghe o alle corruttele degli Stati Uniti, che mirano a destabilizzare quel paese che più di altri minaccia il loro egemonismo imperiale sul mondo.
All’indomani delle elezioni, l’ex consigliere Usa per la sicurezza nazionale, Stephen Hadley – sbarcato a Taiwan con provocatoria tempestività, insieme a un gruppo di ex alti funzionari americani – ha espresso “le congratulazioni del popolo americano” al presidente eletto, il quale ha replicato a sua volta di essere “grato agli Stati Uniti per il forte sostegno alla democrazia taiwanese per la solida, reciproca partnership”. Il portavoce della Casa Bianca – nel riaffermare lo spessore dei rapporti con Taiwan, che con William Lai continuerà ad essere governata dal medesimo partito – ha poi dichiarato che “l’impegno americano nei riguardi dell’isola resta solido come la roccia, basato su principi bipartisan” e “a favore degli amici”, parole che, fuori dalla loro ambiguità, significano che Washington si aspetta che l’isola continui a piegarsi alle priorità strategiche americane in cambio di un’ipotetica protezione davanti a una minaccia ancor più ipotetica.
Mentre tuttavia il segretario di Stato, Antony Blinken si congratulava “per la forza della democrazia taiwanese”, il presidente Biden, in un inusuale momento di realistica resipiscenza, faceva uso di accenti più concilianti, confermando che “in ogni caso gli usa non sostengono l’indipendenza dell’isola”. Una posizione, questa, coerente con il riconoscimento dell’esistenza di un’unica Cina e in linea con i comunicati congiunti che a partire dalla fine degli anni ’70 avevano consentito l’apertura delle relazioni diplomatiche tra i due paesi.
Sul fronte cinese, la portavoce del ministero degli Esteri, Mao Ning – stigmatizzando come “intempestiva” la visita degli ex alti funzionari Usa – ha riaffermato la “tradizionale, ferma contrarietà cinese a qualsiasi interferenza esterna sulla questione Taiwan, un tema che Pechino considera un affare di esclusiva pertinenza nazionale”.
Intanto, proprio il giorno successivo alla vittoria di Lai, un’altra nazione – Nauru, poco più di 12 mila abitanti, la più piccola al mondo – interrompe le relazioni politiche con Taiwan, che ora è riconosciuta solo da dodici paesi.
La strategia americana, a dispetto del lessico inaspettatamente distensivo di J. Biden, continua a soffiare sul fuoco. Un conflitto Pechino-Taiwan, infatti, fermerebbe la locomotiva di un paese, la Repubblica Popolare, che costituisce la sfida più pericolosa all’egemonia americana. Washington farà ricorso a ogni mezzo per rallentare la crescita cinese. Pur in assenza di un accordo di mutua difesa con Taiwan, sulla scorta di una consolidata ambiguità strategica, gli Stati Uniti lasciano trasparire la possibilità (null’altro che la possibilità, tuttavia) d’intervenire militarmente qualora Pechino decidesse di giungere all’unificazione con la forza. La prospettiva ideale per Washington resta un conflitto per interposta Taiwan, con le risorse umane, materiali e industriali dell’isola, in analogia alla guerra Nato-Usa contro la Russia per interposta Ucraina, atteso che un conflitto diretto tra due nazioni nucleari è fuori questione, per intuibili ragioni.
Su Taiwan, infine, l’attuale presidente, Xi Jinping, ricalca le riflessioni che Deng Xiaoping aveva consegnato alla storia nel lontano 1979. Secondo quest’ultimo, l’unificazione “è una missione storica della nazione cinese, condivisa da tutti i suoi figli”, ma suggeriva di abbandonare la retorica della liberazione forzosa. Se non è possibile oggi – nelle parole di Deng – “allora tale questione deve essere rinviata alle future generazioni di leader di Pechino e Taipei, quando le condizioni politiche lo consentiranno”.
Nel frattempo, secondo Xi, i compatrioti delle due sponde dello Stretto “sono chiamati a lavorare insieme per sconfiggere la tentazione indipendentista, favorire il ringiovanimento della nazione e tutelare la sovranità e l’integrità del paese”.
Negli ultimi trent’anni, la Cina si è sempre attenuta al Consenso del 1992. In quell’anno, in uno storico incontro a Hong Kong, le due parti avevano convenuto sull’esistenza di “una sola Cina”, comprendente il territorio continentale e le isole, vale a dire le terre controllate da Pechino e quelle sotto controllo di Taipei. In quell’occasione, il tema cruciale della sovranità era stato però accantonato, mentre il significato da dare alla locuzione “una sola Cina” venne lasciato alla libera interpretazione delle parti, nella classica tradizione ossimorica cinese.
Mentre il Consenso ha rappresentato per Pechino la base delle relazioni con Taiwan, quest’ultima ha nel tempo modificato la sua posizione. Nel 2016, infatti, appena ascesa al governo, Tsai Ing-wen aveva disconosciuto valore delle intese del 1992, investendo su una prospettiva di medio-lungo orizzonte, quando la Cina sarebbe diventata un paese “a democrazia liberale simile a Taiwan”.
Pechino reputa che la riunificazione con l’isola possa realizzarsi senza ricorso alla forza, e a tal fine, confidando nel tempo lungo della storia, utilizza la leva economica quale strumento di seduzione (il primo partner dell’isola su commercio e investimenti, ça va sans dire, è la Cina Popolare), ampliando i confini della geniale formula di Deng – un Paese, due sistemi, già applicata a Hong Kong e Macao – che viene offerta a Taiwan arricchita di ulteriori caratteristiche autonomistiche, cercando così di vincere le resistenze taiwanese, anche se per il momento senza risultati.
Per chiudere, e a dispetto di interpretazioni faziose, Xi Jinping non ha mai indicato tempi precisi per risolvere la vicenda Taiwan, pur rilevando in diverse occasioni che essa non potrà essere rinviata all’infinito.
Nel 2012, da poco eletto Segretario Generale del Partito Comunista, Xi Jinping aveva spiegato che il sogno della nazione cinese si incentrava sui due centenari: a) diventare una società moderatamente benestante entro il centesimo anniversario del PCC (2021); b) completare il ringiovanimento nazionale entro il centesimo anniversario della Repubblica Popolare (2049).
Secondo alcune analisi – ma mancano evidenze convincenti – Pechino avrebbe collegato i tempi della riunificazione con quelli del ringiovanimento, nozione peraltro cui nessuno è stato sinora in grado di dare un convincente significato.