L'inedita sinergia che caratterizza il Trump2 prefigura scenari nuovi e contraddittori. Dove a essere messi in discussione sembrano gli stessi fondamentali delle alleanze occidentali
La conferenza stampa del presidente eletto a Mar-a-Lago (07/01/2025) ha offerto una prima, approssimativa idea, insieme ai sinergici tweet di Elon Musk, di alcune direttrici geopolitiche, almeno per il prossimo anno. Ci sono due constatazioni, che useremo come assiomi per rapidità d’argomentazione: a) l’aquila americana è di fatto un nuovo mutante bicipite (TruMusk), fra il presidente ed il suo partner finanziatore; b) l’Occidente della Guerra Fredda era già finito nel 1991, ma adesso è chiaro che ci sono “gli occidenti”, quadriglie a composizione variabile ed opportunistica, uniti sostanzialmente in una koiné culturale, ma frammentati in politica, società ed economia.
Sgomberiamo anche il campo da facili speranze: la commistione tra potere politico ed affaristico- economico non dipende dagli umori dei due maschi alfa, ma è una costante che adesso è venuta decisamente alla luce. Quello che aveva già insegnato la vicenda di Silvio Berlusconi è che non ci sono conflitti d’interesse, ma sinergie tra l’uomo d’affari ed il decisore politico, trascinate da un solido opportunismo, che non si cura dello status di pariah di alcuni governi.
Il Nord Globale (Cina, Russia, Stati Uniti, et alii), dietro le differenze sostanziali, pone una questione politica: qual è il rapporto tra decisori politici ed oligarchi economici? I due paesi a tendenza autoritaria scelgono la subordinazione del potere oligarchico a quello di una struttura di partito verticistica, oppure di un leader assoluto, non di rado attraverso lo snodo occulto delle “terre di mezzo” mafiose. Il terzo paese sceglie per ora la sinergia, dove, per esempio, le decisioni finanziarie del Congresso possono essere modificabili a colpi di tweet e mobilitazioni elettroniche da parte di un soggetto privo di qualunque validazione democratica.
Benvenuti nell’era della globalizzazione ibrida, perché la globalizzazione economica resiste per ora alle spinte daziarie statunitensi e quella politica ha visto Cina e Russia proclamarsi “democrazie”, la cui unica vera tendenza è di copiare e diffondere le ultime tecniche americane in materia di guerra ibrida politica. Non è un caso, e nemmeno solo un merito personale, che l’Italia si muova con tanta disinvoltura nella scena internazionale: è un paese che ha subito un massiccio addestramento a livelli crescenti di confusione, manipolazione, autoritarismo e rule of unlaw; adesso il resto del mondo ha assorbito queste esperienze avanguardiste, spesso inconsciamente e sempre sotto la spinta della crisi dei sistemi politici, destrutturati dalle dinamiche di “mercato”.
Quella che è chiamata lepidamente la “Dottrina Donroe” di Trump sull’emisfero occidentale (incorporazione del Canada, iscrizione della Groenlandia negl’interessi vitali, ripresa del controllo del Canale di Panamà, ridenominazione del Golfo del Messico) offre diverse indicazioni. La prima è che “America First” significa la priorità delle questioni amero-americane su tutto il resto e che l’istinto d’arrocco tenta di ricreare il NAFTA (North American Free Trade Agreement) clintoniano, sulla base di vincoli ben più forti che quelli economici. La seconda è che Washington corre il rischio, forse calcolato, di reintrodurre la politica di potenza nella pratica fra capitali, per di più spesso alleate: Mosca e Tel Aviv sono molto avanti su questa via, Ankara ha da poco riconfermato la sua sfera geostrategica in Siria, Baku ha appena lanciato un robusto avvertimento all’Armenia sulle sue priorità in Caucaso… altre seguiranno.
La terza è che, tra dazi, spicciative richieste di aumenti della spesa militare e politiche di potenza, l’Unione Europea rischia di essere seriamente e definitivamente scompaginata. Non è la prima volta che l’UE si trova a fronteggiare dei dazi unilaterali, ma oggi sembra non avere la necessaria unità politica. L’effetto ipotizzato dei dazi passa da gravi perdite in termini di PIL a danni quasi trascurabili, ma una guerra commerciale transatlantica deprimerebbe ulteriormente una crescita europea già bassa e gravata da un deficit energetico, con costi che ne tarpano le ali. Se ci aggiungiamo la perdurante crisi del bilancio statunitense e lo scoppio di un’altra bolla speculativa hi-tech, è l’intera zona euroatlantica ad indebolirsi, per non parlare di una ricostruzione ucraina rallentata.
Un altro evergreen già dal 2017 è quello della sperequazione delle spese militari tra USA e membri europei della NATO. È bene ricordare che si tratta di un dibattito ambiguo: da un lato, solo otto paesi non hanno raggiunto la quota concordata del 2% nel rapporto spese militari/PIL (i più rilevanti sono Canada, Italia, Spagna); dall’altro, riguardo al 3,3% difesa/PIL degli USA, solo un quarto viene dedicato al teatro europeo, cioè lo 0,82%. Parlare di spese sbilanciate non corrisponde alla realtà delle cifre. I paesi europei devono piuttosto spendere meglio, standardizzando i loro armamenti per aumentare le loro capacità operative.
Tuttavia, il combinato disposto della minaccia di non proteggere gli alleati “delinquenti”, del ritorno della politica di potenza, insieme ad operazioni di guerra ibrida intestine, porta non solo a lacerare la costruzione europea, imperniata sulla legalità internazionale e sul rifiuto della guerra come strumento politico, ma pure ad indebolire la credibilità dell’articolo 5 della NATO, esso stesso basato sui principi del “rules based order”, nato dalla Carta delle Nazioni Unite (26/06/1945).
Tre scenari. Lo scenario “Furia francese, ritirata spagnola” vede un impeto iniziale della nuova amministrazione, cui seguirebbe un graduale compromesso con fatti più testardi delle ideologie: un compromesso commerciale con Pechino; una ripresa delle relazioni con Mosca ed un rinvio delle sanzioni per Bruxelles in cambio di più spesa militare (Starlink incluso) e per l’Ucraina. Quello “Yalta 2025”, basato sugli equilibri di potenza, porterà al riconoscimento implicito o esplicito delle rispettive sfere d’influenza: Mosca e Pechino potranno proiettare le loro ambizioni in alcuni settori sacrificabili in Eurasia e nei mari cinesi, in cambio dell’abbandono di alcune posizioni troppo avanzate in America Latina, Africa ed Asia e di portafogli nella Nuova Via della Seta. Infine “Il tramonto degli occidenti”, dove le paure incrociate tra perdita di supremazia e frustrazione dell’ascesa al potere globale fanno detonare un’altra grande guerra che inghiotte il Nord Globale, il tutto accompagnato da un rosario di guerre per l’egemonia regionale.
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