La guerra tra israeliani e palestinesi ha rafforzato due vittimismi. Entrambi micidiali. Di nuovo, nella lunga storia insanguinata di quel conflitto, c'è la conquista territoriale di Netanyahu a scapito della solidarietà internazionale. Ciò che prefigura un Israele più grande ma anche più solo
Il Medio Oriente è giunto a un punto di svolta geopolitico? In quelle terre cambia tutto e nulla allo stesso tempo: è l’universo degli eterni ritorni. La prudenza consiglia di non immaginare svolte definitive ma di prendere in esame al medesimo tempo continuità e differenze.
Una cosa non del tutto nuova ma decisamente inconsueta è la riluttanza dei paesi arabo sunniti a mantenere la vecchia posizione anti-israeliana “a prescindere”. Non che tutti i problemi siano risolti ma c’è da notare che non esiste più l’alleanza arabo-islamica antisionista di un tempo, il cosiddetto “fronte del rifiuto”. Progressivamente Israele ha saputo eroderla, iniziando con l’Egitto già alla fine degli anni Settanta del secolo scorso, passando per la Giordania e infine giungere agli accordi di Abramo di quest’ultimo decennio. Si osserva tali accordi hanno sostanzialmente retto malgrado la carneficina a Gaza. Tale posizione delle leadership arabo-sunnite dipende da numerosi fattori tra i quali l’accertata e riconosciuta superiorità tecnologico/economica israeliana ma anche la sfida interna con i movimenti fondamentalisti, spesso sostenuti dall’Iran sciita o ispirati alle sue posizioni radicali. Anche la Turchia di Recep Erdogan, che pur rimane un avversario di Tel Aviv fin dal 2010 (l’affaire dell’assalto alla Mavi Marmara), non è più riuscita a trovare una posizione soddisfacente, ondeggiando tra minacce (per lo più retoriche) e tentativi di riallacciare le relazioni.
Davanti a Israele il mondo musulmano non è unito e ciò paradossalmente significa che lo stato ebraico è molto più sicuro che nelle fasi storiche precedenti, malgrado la propaganda allarmista del governo Netanyahu. Certamente l’orrido pogrom di Hamas del 7 ottobre 2023 ha scosso in profondità la sicurezza del paese, ma l’attuale condotta della reazione israeliana dimostra che i suoi avversari sono più deboli di quanto si pensasse. L’arco sciita, chiamato oggi “asse della resistenza”, non è più così minaccioso. La Siria è paralizzata dalla guerra intestina e il governo di Assad preferisce restare al coperto dietro la Russia, consapevole che non ha nulla con cui opporsi ai ripetuti attacchi aerei israeliani. L’Iraq non è più quello di Saddam che minacciava con i suoi scud: è diviso dalle milizie e vi è una presenza americana che non permette all’Iran di manipolarlo totalmente. Soprattutto i paesi del Golfo cercano una nuova via, diversa dal confronto militare con Israele che si è rivelato una strada senza sbocchi.
Ciò che invece rimane sempre uguale è la polarizzazione identitaria tra israeliani e palestinesi, al punto da escludersi a vicenda: sia Hamas che gli estremisti del governo di Tel Aviv usano la formula “dal fiume al mare”, il che significa che l’altro non ha nemmeno il diritto ad esistere. II coloni della West Bank vorrebbero veder sparire i palestinesi. Così anche Hamas vorrebbe l’eclissi di Israele: pii desideri se non si incarnassero in un’assurda brutalità da entrambe le parti. Non regge nemmeno l’idea che non si possa equiparare uno stato democratico ad un movimento terrorista, proprio perché quello stato utilizza le stesse metodologie di annientamento, come vediamo a Gaza. Tant’è che sul pogrom del 7 ottobre (“diluvio al Aqsa”) esistono due narrazioni. C’è quella islamista: si è trattato di una razzia che giustifica il pogrom, come “la doppia razzia benedetta contro New York e Washington” dell’11 settembre 2001 o la razzia musulmana contro gli ebrei di Khaybar a 150 km a nord di Medina. L’oasi abitata prevalentemente da ebrei fu conquistata nel 628, anno 7 dell’egira, dalle forze medinesi guidate dallo stesso profeta Maometto. Poi esiste la narrazione “global south”: il 7 ottobre si legittima come lotta contro la colonizzazione occidentale, di cui Israele è l’ultimo avatar. Si tratta della reazione ad un’intera storia di oppressione: tratta, schiavismo, colonizzazione storica e depredazione neo-coloniale delle ex colonie.
Se la prima narrazione serve a giustificarsi presso la Umma musulmana, la seconda allarga la sua meta a tutti i popoli del sud, cercando di rubare ad Israele il termine genocidio, prima esclusivo appannaggio degli ebrei a causa della Shoà. Secondo tale narrazione non c’è una sola Shoà ma ve ne sono diverse, incluso l’olocausto provocato dall’espansione europea con la tratta e il colonialismo, che Israele prosegue. Si tratta di peccati storici che non passano. Tra queste due narrazioni e la cultura della critical race theory (da cui nasce il woke delle università americane) esiste una connessione.
Entrambe non prediligono l’elaborazione di narrazioni storiche ma appiattiscono tutto sulla conquista di diritti immediati e contro i privilegi che ne derivano oggi. La storia scompare con tutte le sue sfumature e corresponsabilità, lasciando sul terreno un solo colpevole.
Tale trappola culturale mette sotto scacco la cultura politica democratica, come notiamo negli USA che stanno andando alle elezioni: da una parte i suprematisti MAGA di estrema destra sostenitori di Israele (anche se ex-antisemiti); dall’altra i critici della razza, sostenitori di black lives matter, intersezionali (una volta difensori della Shoà ma oggi “pro- pal”), che definiscono il 7 ottobre un atto di resistenza. Si tratta di una tenaglia assurda, una scelta impossibile. Si potrebbe affermare che la ritorsione di Tsahal a Gaza (ed ora in Libano) ha trasformato i massacratori del 7 ottobre in vittime, soprattutto a causa dalla sproporzione del numero dei morti. Ciò sta accadendo anche con Hezbollah. Si scontrano all’ultimo sangue due vittimismi, divenuti armi micidiali e parimenti letali.
La storia è in verità molto più complessa e contradditoria. Hamas stessa è stata teatro in questi decenni di una lotta interna molto sanguinosa tra filo-iraniani e filo-fratelli musulmani, cioè filo-turchi (alleati al Qatar). I sauditi e gli Emirati arabi uniti sono rimasti in bilico – almeno fino ad oggi – reagendo alla breve, assieme agli egiziani e ai giordani. Avevano capito che tale lotta intestina non portava nulla di buono per gli stati arabi sunniti: difficile scegliere tra iraniani e turchi… Quando il filo-turco Khaled Meshal era stato esautorato in favore di Yahyia Sinwar, si capì che la bilancia pendeva dalla parte di Teheran, anche se nessuno pensò che si sarebbe giunti alla guerra. L’Iran ha fatto sapere varie volte in passato di non volere un conflitto aperta. Ancora oggi, malgrado gli attacchi e le ritorsioni, il messaggio resta lo stesso. Sinwar invece pensava ad un attacco sin da quando gli Accordi di Abramo avevano offuscato il problema palestinese. Da questo punto di vista ha avuto ragione: comunque la si pensi la questione palestinese – assieme a quella dei due stati – è tornata prepotentemente sul tavolo internazionale. Ma ciò è avvenuto nel peggiore dei modi: con una guerra di massacri (qualcuno dice di genocidi) e non mediante la politica. Ciò avrà degli strascichi pesanti per tutti, ad esempio dal punto di vista giuridico.
Le denunce e le inchieste della Corte penale internazionale e della Corte internazionale di giustizia (entrambe all’Aja ma da non confondere), dureranno a lungo e avranno effetti inattesi per entrambi i soggetti. In questo caso a perderci di più sarà Israele perché si tratta di uno stato. Le due corti simboleggiano la logica del limite: non tutto è concesso in guerra, nemmeno nella guerra giusta. La corte di giustizia esamina gli stati e qui Israele può essere condannato mentre Hamas sfugge alla sua giurisdizione, essendo un movimento terroristico. La Corte penale internazionale riguarda invece le persone e mette spalla a spalla Netanyahu, Gallant e i generali israeliani, con Sinwar, Deif e Haniyeh ecc. (questi ultimi tre morti ormai). Il giudizio su Israele e sui suoi leader politico-militari avvelenerà le relazioni dello stato ebraico e la sua posizione internazionale per lunghissimo tempo. In altre parole: non si fa una guerra di annientamento senza pagarne un prezzo.
Un’altra conseguenza è il progressivo spostarsi dell’opinione pubblica occidentale su posizioni anti-israeliane, a cui contribuiscono ovviamente le collettività islamiche immigrate e naturalizzate. Nel Regno Unito si consolida il “voto musulmano”: alle ultime municipale le liste pro-Gaza hanno raccolto 4 milioni di voti. In Francia il partito di Mélenchon (La France Insoumise) fidelizza i 7 milioni di elettori di origine arabo-musulmana. Un problema simile ha avuto Kamala Harris in Michigan, swing state in cui si concentra una popolazione di origine islamica. Di conseguenza la relazione Israele-Usa è una macchinazione permanente: l’8 maggio scorso fu l’unico momento in cui il presidente Joe Biden minacciò sul serio Israele di sospendere le consegne di armi se avesse attaccato Rafah… ma non servì a nulla. Si stima che su Gaza siano state riversate 45.000 tonnellate di bombe di fabbricazione americana. A peggiorare la situazione il quotidiano britannico Guardian ha rivelato le intimidazioni del Mossad contro la Corte penale internazionale, tra l’altro guidata da un britannico di origine pakistana, il giudice Karim Khan, il quale ha sostituito un’altra giudice di religione islamica, la gambiana Fatou Bensouda. Oggi alla corte internazionale di giustizia c’è il libanese Nawaf Salam.
Infine la messa fuori legge dell’UNRRWA mette Israele direttamente contro le Nazioni Unite: anche se si è più forti non si vince contro tutti questi nemici. È utile ricordare anche che Spagna, Irlanda, Norvegia e Slovenia tra fine maggio e inizio giugno hanno riconosciuto lo stato palestinese, atto simbolico ma si sa che in politica il simbolo può essere tutto.
Dal lato di Hamas le cose non sono più semplici: l’uccisione dei suoi capi non annulla l’esistenza del movimento e il fatto che sia acefalo lo rende ancor più pericoloso. Esiste una conclamata incertezza iraniana: Hamas ha deciso da sola l’attacco del 7 ottobre e resta prima di tutto un movimento nazionalista palestinese. L’Iran è un alleato ma non decide tutto: Hamas non è un burattino eterodiretto. Le autorità iraniane ci hanno messo tre settimane prima di allinearsi (mediante il discorso del leader di Hezbollah Hassan Nasrallah) su Diluvio al Aqsa, cercando di non prendersi tuttavia la responsabilità.
Il Global South non è da meno: anche Pechino è restata silenziosa, allineata piuttosto sulle preoccupazioni saudite e emiratine (la Cina ha un interscambio di 100 miliardi con gli Emirati e solo di 16 con Teheran). Solo Mosca non ha indugiato nel sostenere Hamas ma non è riuscita ad organizzare l’unità della resistenza palestinese: tra le fazioni dell’OLP (almeno 3), Hamas, la Jihad islamica e altri raggruppamenti (FPLP ecc.) non c’è intesa.
Intanto la guerra coinvolge ormai direttamente anche Libano e Iran: in assenza di una vera politica la questione palestinese rimane ancora molto lontana da un inizio di soluzione.