Un terzo del debito globale è degli Usa. Tre quarti del debito complessivo è accumulato in soli sei paesi. Si spende più per gli interessi che per salute, ambiente e istruzione. A rischio il benessere della prossima generazione
Nei giorni della protesta degli agricoltori, si è discusso di torti e ragioni fra esigenze economiche e direttive europee sul clima. Ancora una volta è stata sconvolta la gerarchia di priorità sociali e scadenze temporali, teoricamente – ma solo teoricamente – indiscutibili per la salvezza del pianeta. Succede in molti altri ambiti, come se la problematica climatica possa essere affrontata con un binocolo rovesciato: l’ingrandimento, nitido sulle nostre esigenze immediate, come società e come individui, e il lato piccolo su un panorama relativamente lontano.
Ed è stupefacente come questioni di natura quasi metafisica – la scomparsa del pianeta, la sopravvivenza dell’uomo su questa terra – siano confermate da statistiche e osservazioni scientifiche non negoziabili, eppure non radicalmente affrontate. Se è vero che il concetto di sostenibilità è entrato nelle politiche nazionali e nella coscienza dei cittadini, i passi decisivi sono ancora timidi e frenati da esigenze economiche contingenti.
Un approccio analogo si è potuto notare a proposito di cooperazione con i Paesi sottosviluppati e indebitati. Mentre è ricorrente la narrazione sulla necessità di favorire la crescita, frenare i fenomeni migratori, investire in Paesi che altrimenti, come avviene già ora, andrebbero alla deriva in balia di potenze antagoniste dell’Occidente, in testa Cina e Russia, poco o nulla davvero si fa perché questo avvenga.
Peggio ancora, il debito accumulato nel passato continua ad ingrossare il debito delle generazioni future. Un po’ come avviene in tanti Paesi progrediti e ricchi i cui governi balbettano su tagli del debito e patti di stabilità, salvo continuare ad indebitarsi a doppie cifre. Un fenomeno che si è via via ingigantito dopo la pandemia. Questa situazione costringe quasi la metà dell’umanità a spendere più per il servizio del debito che per la salute e l’istruzione o la tutela ambientale. Centinaia di milioni di persone continueranno a soffrire, per anni a venire, le conseguenze di un perverso sistema finanziario globale.
Da notare che oltre un terzo del debito globale è debito degli Usa. Seguono in percentuali molto minori la Cina, il Giappone, il Regno Unito, la Francia, l’Italia. In pratica tre quarti del debito globale sono sulle spalle di sei Paesi. Ovvio che questi dati non possono certo contribuire a sussulti di solidarietà mondiale, salvo un cambio di passo nelle agende internazionali, speculare a quanto si tenta almeno di fare per il clima. Tanto più che, a ben vedere, le due cose stanno insieme. Catastrofi naturali, inondazioni, tifoni e terremoti moltiplicano anche i debiti, drenano risorse e investimenti per la ricostruzione e gli aiuti alle popolazioni colpite, trasformano aree urbane in deserti.
Diversi Paesi, negli ultimi tre anni, in particolare in Africa, hanno dichiarato il default o sono prossimi a farlo. Ad esempio, Zambia, Ghana, Libano. Il maggior creditore di alcuni di essi è la Cina. Per capire l’ordine di grandezza, tra il 2000 e il 2017 la Cina ha finanziato progetti in altri Paesi per un totale di oltre 800 miliardi di dollari, per lo più sotto forma di prestiti. Ma si tratta generalmente di pagamenti insostenibili, che alimentano con nuovi debiti il servizio al debito e vengono tamponati con misure che fanno crescere una dipendenza di tipo coloniale, fatta di concessioni sulle risorse, contratti per infrastrutture e armamenti, corruzione delle élite. È ovvio che queste condizioni finanziarie frenano investimenti e sviluppo di servizi e infrastrutture. Un circolo vizioso e perverso da cui non si può uscire con scarsi aiuti e progetti minimali (vedi il tanto sbandierato piano Mattei del governo italiano, una partita di giro di risorse scarse e in verità già stanziate), né discutendo di debito delle prossime generazioni senza la volontà politica di affrontare il debito pregresso. La tendenza è invece opposta e coinvolge la responsabilità di governi, creditori e istituzioni internazionali.
Secondo dati del 2023 della Banca Mondiale, i 75 Paesi più poveri hanno versato la cifra record di 88,9 miliardi di dollari per il servizio del debito nel 2022 – ovvero il 4,8% in più rispetto al 2021. Secondo il rapporto International Debt Report (IDR), pubblicato a dicembre del 2023 dalla Banca Mondiale, nel 2023 e nel 2024 i costi complessivi per il servizio del debito dei 24 Paesi più poveri potrebbero aumentare del 40 per cento circa. Ai costi e all’ indebitamento andrebbero sommati – per una disamina delle condizioni di sviluppo – i tagli della spesa pubblica, quindi i mancati investimenti in servizi e infrastrutture che, a loro volta, implicano perdita del capitale umano.
Sempre secondo la Banca Mondiale, nel 2022 il debito pubblico globale ha raggiunto la cifra di 92.000 miliardi di dollari, di cui i Paesi in via di sviluppo si fanno carico per il 30%. Secondo le proiezioni del Fondo monetario internazionale, nel 2023 il debito pubblico globale raggiungerà i 97 mila miliardi di dollari, con un aumento del 40% dal 2019.
La tendenza all’ indebitamento interessa in questo quadro anche un mercato degli armamenti in espansione e la moltiplicazione di conflitti regionali che stimolano la spesa per la difesa o per la guerra a discapito della spesa sociale e in infrastrutture.
Secondo un rapporto del Cespi, «I creditori privati – per lo più occidentali – coinvolti nel debito del Sud globale sono sempre riusciti ad assicurarsi che gli oneri delle misure di ristrutturazione e parziale cancellazione del debito estero gravassero quasi esclusivamente sui creditori pubblici, mentre erano stati privatizzati molti proventi».