L'area di influenza indiana è una realtà ormai rilevante quanto quella cinese. E' solo meno raccontata. Nonostante i gangli economici, produttivi, finanziari globali siano sempre più connessi al più popoloso paese del pianeta. Che ha già i suoi manager al top delle maggiori aziende occidentali
Attraggono più l’attenzione i cinesi che lavorano nei maglifici di Prato che i braccianti indiani dell’Agro Pontino o i casari Sikh in Emilia. Eppure, le due diaspore, quella cinese e quella indiana, hanno dimensioni equivalenti: Sinolandia e Indolandia contano cinquanta/sessanta milioni ciascuna. Si ricordano – e le si indicano con l’asterisco nelle guide turistiche – le Chinatowns nei cinque continenti, ma in poche righe vengono liquidate le ormai più numerose ed affollate Indiatowns. Forse il motivo è che la sinosfera è ormai consolidata, anche nell’immaginario collettivo, dai coolies poveri che offrivano le proprie braccia nelle colonie britanniche di Hong Kong e Singapore ai manovali che costruirono la First Transcontinental Railway che unì le due coste americane 150 anni orsono, mentre quella indiana è più recente, se si fa eccezione per i mercanti di spezie e i contadini delle piantagioni dell’Africa orientale.
Eppure, non ci si dovrebbe più stupire, non solo per le dimensioni geopolitiche, economiche e umane raggiunte dall’India del XXI secolo. Si prenda quella che può essere considerata la punta del diamante della diaspora indiana, negli Stati Uniti, che in venti anni è passata dallo 0,5 all’1,5 per cento della popolazione. Ed è quella che registra il maggior livello di istruzione e di successo economico. Si tratta di un fenomeno ancora poco studiato ma rivelatore delle traiettorie lungo le quali si incammina il mondo in cui viviamo. Tra una delle nazioni ancora tra le più povere del mondo e quella più avanzata sta avendo luogo un processo straordinario basato su selezione, assimilazione e imprenditorialità che non ha precedenti, non foss’altro che per la rapidità: in rapporto, l’emigrazione europea negli Stati Uniti avvenne nel corso di un secolo e, salvo eccezioni, iniziò dai gradini più bassi della scala sociale. Chi fosse interessato a saperne di più può fare riferimento all’interessante libro degli indiani Ching, Kapur e Chakravorty: “The other one percent: Indians in America”, Ne cito un solo dato: gli oltre quattro milioni di indiani in America hanno un reddito medio di 120.000 dollari a testa…
L’ultima volta che il Primo Ministro indiano Modi è stato in visita negli USA, nel settembre di quest’anno, per incontrare il Presidente Biden e prendere parte al Quad Leader’s Summit di Washington, si è trovato tra compatrioti: dopo aver parlato all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, a Long Island ha incontrato 13.000 indiani che lo hanno osannato.
Gli indiani “arrivati” di Palo Alto, della Silicon Valley – dove formano la più grande comunità di investitori stranieri, basti ricordare che l’8 per cento dei fondatori di compagnie hi-tech negli USA sono indiani – sono presenze familiari su Time e Newsweek: da Sundar Pichar, amministratore delegato di Google e Alphabet, a Satya Nadella, CEO di Microsoft, da Ghantanl Narayen, CEO di Adobe Systems, ad Arvind Krishnai, Presidente e Amministratore Delegato di IBM. Ma anche Indra Nooyi, Ceo di PEPSICo, Laxman Narasimhan, Amministratore Delegato di Starbucks, Ajoy Banga, CEO di Mastercard, Radhika Jones, Editor in chief di Vanity Fair, Vasant Narasimhan, CEO di Novartis, una delle più grandi case farmaceutiche del mondo, a Punit Renjen, Amministratore delegato di Deloitte.
Non che manchino gli indiani negli ingranaggi della politica americana. Due esempi per tutti, la candidata americana alla Casa Bianca, la senatrice e Vice Presidente Kamala Harris, nata in California da genitori giamaicani ed indiani, formata alla Howard University, la grande università delle élites nere a Washington, e Nimrata Randhawa, detta Nikky e coniugata Haley, che a lungo ha contrastato la nomination repubblicana a Trump nel 2024, dopo che era stata nel primo mandato presidenziale di questi l’Ambasciatrice alle Nazioni Unite, nata nella Carolina del Sud, da genitori indiani Sikh.
Un settore forse più caro ai lettori di Pluralia Opinions, la geostrategia, è quello nel quale gli esponenti della diaspora brillano con intensità. E qui, il primo che viene alla mente è Parag Khanna, pubblicista di gran successo, americano nato a Kanpur, in India, laureato alla London School of Economics e alla Georgetown University di Washington. Khanna, a conclusione della fase più acuta della pandemia del Coronavirus, ha scritto un libro di gran successo: “Move: The forces that are Uprooting us and Will Shape Humanit’s Destiny”, che tratta l’accelerazione delle forze che stanno cambiando il profilo del mondo, dai cataclismi politici alle carenze di manodopera alle evoluzioni tecnologiche ai cambiamenti climatici. Il secondo è Fareed Zakaria, con studi a Berkeley, Yale ed Harvard, commentatore di CNN, editorialista di Time, inserito da Foreign Policy nella lista dei primi cento geostrateghi globali, nato ugualmente in India, a Mumbai, autore di “The Post-American World”. La tesi del suo libro è che grazie agli Stati Uniti nella diffusione dei valori democratici, dell’economia di mercato e delle tecnologie, altre potenze si stanno affiancando ad essi, a partire dalla Cina e dall’India, in un mondo sempre più multipolare e meno “Washington- driven”. Tuttavia, questi sono solo la punta dell’iceberg: quelli che non si vedono sono le centinaia di migliaia di quadri, di informatici, di professori universitari, di amministratori che, quotidianamente, stanno alla base di quello che per essi rimane l’American Dream e che ad esso contribuiscono.
Volgendo lo sguardo altrove, a cominciare dal Golfo Persico, si contano più di otto milioni di espatriati indiani, di cui 3,8 negli Emirati – prima comunità, con il 40 per cento del totale della popolazione, la quarta diaspora dopo quella in America, in Arabia Saudita ed in Malesia – e 2,5 milioni in Arabia Saudita. Anche qui, al tradizionale zoccolo duro di mercanti e lavoratori a basso livello di istruzione, si va sempre più rapidamente sovrapponendo una élite che svolge un ruolo di primo piano nella finanza, nella sanità, nei trasporti, nei servizi. Né si può dimenticare la plurisecolare presenza indiana nell’Africa orientale.
Tuttavia, dovremmo guardare anche molto più vicino a casa nostra. Ad esempio in Europa.
Se gli indiani in Italia – circa 200.000 – costituiscono una comunità tanto industriosa e rispettosa della legge, quanto recente, non tutti sanno che la prima collettività di espatriati in Germania di origine non europea, in termini di reddito personale, non è composta più dai turchi ma dagli indiani. Secondo il sociologo Amrita Datat ciò accade perché i giovani che emigrano in Occidente “hanno decine di anni di attività professionali davanti a loro, sono superambiziosi, fortemente istruiti e perciò le grandi aziende se li contendono”. Non più, dunque, solo braccia da lavoro…
E che dire degli indiani in Gran Bretagna, il paese di cui sono stati a lungo colonia e del quale oggi hanno acquistato, tra le altre, i marchi di Jaguar e Land Rover? Secondo il Centro di Studi Policy Exchange, i due milioni di indiani che vivono nel Regno Unito, il tre per cento della popolazione totale, di cui 700.000 a Londra – il gruppo etnico asiatico più numeroso – sono quelli meglio integrati, considerando i parametri del reddito, delle proprietà, dell’educazione (qui secondi ai cinesi) e più socialmente attivi, con amicizie diffuse al di fuori del loro gruppo etnico, assai meglio dei cugini pachistani e bangladeshi.
In Gran Bretagna, come negli Stati Uniti, le storie di successo si moltiplicano a partire dall’inizio del secolo, ed in specie dopo la Brexit: ad esempio, solo nel 2023 oltre 250.000 indiani si sono stanziati nel Regno Unito. Storie di successo perfino nella ristorazione, con i novemila ristoranti indiani, di cui sette contano almeno una stella Michelin. È finita l’epoca in cui, per scherno, a chi chiedeva un indirizzo indiano, si rispondeva con un “follow the smell”: oggi il curry è apprezzato a Londra come a Madras, lo dimostrano i due milioni di britannici che ogni settimana mangiano in un ristorante indiano ed i tre che cucinano a casa un pasto indiano a base di spezie almeno una volta a settimana… Un successo, peraltro, che spazia dalla musica alla letteratura, alla politica, con l’ex Premier Rishi Sunak.
In sintesi, secondo il sito Indiaspora, sono oltre duecento i leader provenienti dalla diaspora indiana a livello globale, inclusi otto presidenti e primi ministri e 65 politici a livello ministeriale. Tra i quali aggiungerei il Sikh Ajay Banga, nominato da Biden Presidente della Banca Mondiale nel settembre 2023, dopo essere stato Presidente di Exor, prima ancora di Mastercard e membro del board di Dow Chemical e del World Economic Forum di Davos.
Gli indiani a casa loro non sono da meno. I cosiddetti Global Indians sono ormai conosciuti in tutto il mondo, da Lakshami Mittal, CEO di Arcelor Mittal a Yusuf Hamided, Presidente del gigante farmaceutico Cipla; da Anand Mahindra, CEO dell’omologo conglomerato industriale che opera in cento paesi ed ha acquistato la carrozzeria Pininfarina, a Ratan Tata, recentemente scomparso, a capo dell’enorme multinazionale che ha acquisito, tra l’altro, Air India, rinnovandone la flotta con ben 470 ordinativi di nuovi velivoli; da Mukes Ambani, il Presidente e CEO del gruppo Reliance, attivo nelle telecomunicazioni, media e petrolchimica, multimiliardario e uomo più ricco dell’Asia ed undicesimo nel mondo, a Gautam Adani, fondatore dell’omonima azienda, tra le principali realtà portuali del globo. Ma a Mumbai non hanno sede solo i grandi conglomerati industriali e finanziari: anche Bollywood ha lo stesso indirizzo. Ed i suoi lustrini non oscurano la serietà dei percorsi accademici di molti dei suoi attori più famosi, dal mitico Shas Rukh Khan ad Amitabh Bachchan, dottore al Quennsland College in Australia, alla bellissima Parineti Chopra, con tripla laurea all’università di Manchester, in business, finanza ed economia.
Ci siamo distratti un attimo e l’India ci è volata via dalle mani, intenti a pensarla eternamente povera e remissiva, oppure riflettente la luce del Mahatma Gandhi e di Madre Teresa. Abbiamo speso troppo tempo sulle pagine della cronaca mondana dei giornali a leggere i resoconti degli sfarzosi matrimoni indiani, celebrati sempre più spesso anche in Italia – senza prestare sufficiente attenzione alle pagine di finanza e geopolitica.
Qual è dunque il perché del successo indiano? Non basta dire che i migliori figli di quel continente sterminato eccellono in matematica, fisica, scienze, parlano l’inglese, sono resilienti. La differenza la fa l’educazione, il vero valore aggiunto di ogni famiglia indiana che intenda assicurare un futuro ai propri figli. Vi si investe tanto, come negli Stati Uniti, spesso tutto, come in Cina, per offrire loro le migliori opportunità. Pochi sono consapevoli, ad esempio, che i venticinque Indian Institutes of Technology sono tra le massime istituzioni accademiche del mondo, capaci di confrontarsi con il MIT di Boston e in grado di sfornare eccellenze “pronte all’uso”, in patria ed all’estero. Tuttavia, coloro che emigrano – migliaia ogni anno – rappresentano certo un valore aggiunto per la già ricca diaspora, ma un brain drain per il paese che li ha formati. Un problema che in Italia conosciamo bene…