Opinions #04/24

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Il terzo incomodo

C’è una regola ferrea che governa le elezioni presidenziali americane: il terzo candidato, affiliato a un partito minore o totalmente indipendente, è destinato a non vincere. Ma quasi sempre contribuisce a far perdere. È successo più volte anche negli ultimi trent’anni.

Nel ’92 il miliardario Ross Perot si intromise tra un big del Gop come George Bush senior e il giovane leone dell’Arkansas Bill Clinton. Perot conquistò poco meno del venti per cento dei voti, sottraendoli soprattutto a Bush, reduce dalla vittoriosa conclusione della Guerra fredda e di quella caldissima contro Saddam Hussein. Vinse Clinton.

Otto anni dopo furono invece i democratici a patire gli effetti del “terzo incomodo”. Con meno del tre per cento dei voti, il leader del partito Verde, Ralph Nader, sottrasse la vittoria a Al Gore. Vinse allora Bush junior, con un plus decisivo di soli 537 voti nella Florida governata da suo fratello Jeb.

E gli ambientalisti contribuirono anche a un’altra sconfitta bruciante in campo democratico. Nella sfida tra Hillary Clinton e Donald Trump, nel 2016, si inserì Jill Stein, medico laureato ad Harvard, divenuta leader dei Verdi. Raccolse l’uno per cento dei voti. La Clinton nel voto popolare ne aveva presi tre milioni più di Trump. E’ rimasta opinione diffusa tra i democratici che gli “spiccioli” conquistati dalla Stein avrebbero permesso alla ex first lady e ex Segretario di Stato di avere la meglio sul tycoon.

E siamo a oggi. Con Trump, candidato furioso dei repubblicani, e Biden, candidato ostinato dei democratici, separati nei sondaggi da non più di 2-3 punti percentuali. Tra loro almeno tre candidati indipendenti. Ma solo uno è davvero competitivo, Robert Francis Kennedy jr, una vita da democratico, ambientalista, nemico giurato delle multinazionali agro-alimentari ma anche di BigPharma. Finito nel mirino del suo partito di riferimento per le posizioni anti vax in era pre-Covid, è adesso in corsa solitaria.  Ignorato dai media mainstream fino a qualche settimana fa, viene adesso considerato uno scomodo concorrente sia per Biden sia per Trump.

I sondaggi lo danno in crescita e con un gradimento superiore ai due candidati ufficiali (Gallupp del 9 gennaio: RFK 52%, Trump 42%, Biden 41%). Con un altro sistema elettorale, dove vince chi prende più voti, il nipote di John Kennedy sarebbe considerato l’uomo da battere. Ma per concorrere alle presidenziali Usa le regole prevedono la raccolta di un numero cospicuo di firme in tutti i cinquanta Stati, la preventiva costituzione di team per la promozione porta a porta, etc. Milioni di dollari non facili da trovare ma che RFK jr sta trovando tra grandi donatori e una moltitudine di contributi da 5 o 10 dollari

Le ragioni di questo successo? Il nome Kennedy, il fascino di un avvocato che vince le class action, l’approccio al tempo stesso repressivo e umano all’immigrazione clandestina, la denuncia della deriva violenta della società americana, l’attenzione alla classe media, che non si è mai ripresa dopo la crisi dei subprime del 2008. Tutte componenti di un “discorso nazionale”, da sempre prioritario negli Stati Uniti.

Ma a questi elementi Kennedy jr ne ha voluto da subito affiancare un altro, la politica estera. Terreno solitamente minore che invece, con le guerre in corso, sembra soffiare nelle sue vele. E sorprende che il “manifesto” elettorale sia rimasto lo stesso da quando, ad aprile, ha deciso di scendere in campo. Sabato scorso RFK jr lo ha di nuovo enunciato, e la lettura offre spunti di riflessione interessanti.

 

La guerra in Ucraina non sarebbe mai dovuta accadere ed è ora di comprendere la complessa rete che la circonda.

Il retroscena – La Russia ha tentato più volte di risolvere questo conflitto, chiedendo una cosa fondamentale: tenere la Nato fuori dall’Ucraina. Tuttavia, i grandi appaltatori militari avevano altri piani. L’aggiunta di nuovi paesi nella Nato ha significato un mercato garantito per aziende come Northrop, Grumman, Raytheon, General Dynamics, Boeing e Lockeed.

Il costo finanziario – A marzo 2022 abbiamo stanziato l’incredibile somma di 113 miliardi di dollari per la guerra in Ucraina. Sarebbero bastati per garantire una casa a quasi tutti i senzatetto nel nostro paese. Ma non finisce qui. Due mesi fa ne sono stati stanziati altri 24 miliardi e ora il presidente Biden ne chiede altri 60.

La pista del denaro – I fondi non andranno veramente all’Ucraina ma ai produttori americani della Difesa. Chiamandoli ‘prestito’ si possono imporre misure di austerità estreme all’Ucraina, compresa la vendita alle multinazionali dei beni di proprietà pubblica, compresi i preziosi terreni agricoli.

L’accaparramento della terra – Proprio i terreni agricoli dell’Ucraina, il granaio d’Europa, sono uno dei principali obiettivi: il 30% è già stato venduto a Dupont, Cargill e Monsanto, tutte appartenenti a BlackRock.

Il contratto per la ricostruzione – A dicembre il presidente Biden ha assegnato l’appalto per ricostruire l’Ucraina e, sì, avete indovinato: BlackRock si è assicurata l’accordo”.

Senior correspondant

Alessandro Cassieri