Opinions #01/24

Opinions #01 / 24
Grande sfida elettorale

L’anno appena iniziato prevede elezioni in una cinquantina di paesi sparsi nel mondo. In totale saranno chiamati alle urne oltre due miliardi di persone, un quarto della popolazione mondiale. Una tornata elettorale che riguarda, tra gli altri, Stati Uniti, Europa nel suo insieme, Taiwan e Russia.
Poche volte, in passato, l’esito di un passaggio elettorale è stato previsto così decisivo come per USA2024. Da quel voto, che si terrà a novembre, il sistema internazionale attende un indirizzo della politica estera americana, destinato a influenzare e condizionare le relazioni in atto. Che tra i grandi attori della scena planetaria – Usa, Cina, Russia – sono notevolmente deteriorate, trovando da una parte Washington capofila di un occidente in affanno, dall’altra Pechino e Mosca alla guida di un “rest” che guarda a nuove organizzazioni collettive, come i Brics.
Molto dipenderà da chi risulterà vincitore: di nuovo Biden, di nuovo Trump o per la prima volta un outsider, come il candidato indipendente Robert Kennedy jr. Con il primo Washington confermerebbe l’attitudine mostrata a favore di Kiev, contro Mosca, pro-Israele, retoricamente minacciosa nei confronti di Pechino. Con gli altri due l’approccio estero registrerebbe un calo di tensione con la Russia e un tentativo di road map per riavviare il dialogo per una qualche specie di soluzione del conflitto israelo-palestinese. Sul confronto con la Cina Biden e Trump non hanno posizioni sostanzialmente differenti: il ‘contenimento’ della potenza asiatica è del resto il cuore della politica della Casa Bianca dai tempi di Obama e del suo ‘pivot Asia’.
Con RFK jr il metodo potrebbe essere diverso. “Gli Stati Uniti hanno speso ottomila miliardi di dollari in guerre negli ultimi vent’anni. Mentre noi bombardavamo ponti, strade, porti, scuole, università, ospedali loro (i cinesi) li costruivano”, la posizione espressa in campagna elettorale dal nipote di John Kennedy.
A tenere l’attenzione concentrata su Washington e sul pianeta americano non c’è solo il risultato delle presidenziali ma anche il percorso che porterà a quel momento. Nulla per ora appare infatti scontato. Ai sondaggi negativi per Biden si abbinano le inchieste giudiziarie su suo figlio Hinter che stanno lambendo sempre più da vicino il presidente in carica. Nel partito democratico sono molti a consigliare a Joe Biden di fare un passo indietro, in primavera, dopo le prime sfide alle primarie che potrebbero presentarlo ancora in decenti condizioni.
Sull’altro fronte Trump deve affrontare, da qui al voto di novembre, decine di procedimenti giudiziari in oltre trenta Stati. Condizione di accusato che da una parte rafforza la determinazione a sostenerlo del ‘nocciolo duro’ del suo elettorato ma che dall’altra mette in difficoltà la residua componente ‘tradizionale’ del partito repubblicano.
Ma oltre, e più ancora della sfida tra i due, ad alimentare le incertezze è la tenuta stessa del sistema elettorale Usa, sotto uno stress test senza precedenti. La squalifica di Trump dalle primarie repubblicane decisa dallo stato del Maine e da quello del Colorado ha aperto un contenzioso che va oltre i casi specifici. In discussione c’è l’interpretazione e l’applicazione di una clausola rimasta inerte per oltre 150 anni, la Sezione 3 del 14° emendamento della Costituzione, che esclude la partecipazione di candidati che abbiano promosso insurrezioni contro lo Stato o che vi abbiano aderito. Una norma frutto della guerra civile e che il segretario di Stato del Maine, Shenna Bellows, del partito democratico, ha applicato a Trump per il suo ruolo in occasione dell’assalto al Campidoglio del 6 gennaio 2021.
Una scelta seguita dalla Corte suprema del Colorado (con 4 membri a favore e 3 contrari) ma non condivisa in altri Stati, pure a guida democratica, come la California. Ma soprattutto destinata a riproporre lo scontro tra le massime autorità costituzionali: le Corti supreme dei singoli Stati e la Corte suprema degli Stati Uniti, dove i conservatori hanno la maggioranza, 6-3. Un braccio di ferro che si trascinerà durante tutta la campagna elettorale e che, data la composizione politica di ciascuna Corte, trasformerà la contesa giuridica in ulteriore scontro tra democratici e repubblicani, con prevedibili reciproche delegittimazioni. Qualcosa di simile a quello che avvenne nel 2000, con la contestata vittoria di Bush jr su Al Gore per una manciata di schede dubbie nello stato della Florida, all’epoca guidato da Jep Bush, il fratello del candidato repubblicano. Ma rispetto ad allora la situazione viene giudicata più grave.

“Né la Corte Suprema né il paese possono permettersi un’altra elezione alterata da una evidente decisione di parte” hanno ammonito alla vigilia di Natale, sulle colonne del New York Times, Steven Mazie e Stephen Vladeck.

Senior correspondant

Alessandro Cassieri