Opinions #1/25

Opinions #1 / 25

Anno nuovo, buone intenzioni. Come auspicava su Forbes quasi dieci anni fa Doug Bandow, senior fellow del Cato Institute di Washington. Il lodevole proposito è semplice: prima di accusare gli altri bisognerebbe evitare di commettere gli stessi ‘peccati’ per cui si protesta. Si riferiva alle interferenze nelle elezioni americane che ai tempi della prima vittoria di Trump (contro Hillary Clinton) venivano ascritte senza ombra di dubbio all’azione di Mosca. La stessa cosa, su scala ridotta, si è riprodotta nei mesi scorsi durante la campagna elettorale per USA-2024, poi la vittoria larga di Trump ha spuntato l’arma del mainstream. Da quel momento, e sono passati meno di due mesi, il dito dell’amministrazione Biden contro le interferenze russe si è spostato su altri quadranti. Prima in Moldova, dove l’opposizione che ha dato filo da torcere alla presidente euro-atlantista Maia Sandu è stata accusata di aver ricevuto sostegno diretto e indiretto da Mosca per riportare nella sua orbita la piccola repubblica ex sovietica. Senza badare all’intervento della presidente della Commissione europea, Von der Leyen, che a pochi giorni dal voto presidenziale ha fatto balenare il rischio di non erogare i quasi due miliardi di euro promessi a Chisinau, in caso di sconfitta del fronte europeista. La partita vera lì si giocherà l’estate prossima, con le elezioni politiche. Nel frattempo le accuse di cospirazione antidemocratiche hanno riguardato un paese ancora più rilevante, la Romania membro effettivo della Ue e della Nato. Qui le presunte interferenze straniere hanno addirittura portato all’annullamento del primo turno delle elezioni presidenziali, che a sorpresa aveva visto primeggiare il candidato nazionalista di destra, Calin Georgescu, contrario all’aiuto militare all’Ucraina e favorevole al ripristino delle relazioni con la Russia. La clamorosa decisione, definita anche dalla leader del fronte europeista, “illegale e immorale”, è stata spiegata con un rapporto dei servizi segreti rumeni secondo i quali per la campagna elettorale di Georgescu sono stati spesi un milione di euro sulla piattaforma TikTok. A pagare sarebbe stato un programmatore e businessman, Bogdan Peshir, definito dai media l’”Elon Musk dei Carpazi”. In pratica: non ci sono state violazioni, ne frodi, né contestazioni ai seggi elettorali. Ma si accusa un candidato “scomodo” di aver goduto della pubblicità pagata su una delle piattaforme social da un mecenate suo estimatore. Chi ha seguito le presidenziali americane troverà curiose analogie col caso rumeno, ma questo non induce a maggiore prudenza censori e propagandisti. In una frenetica azione a sostegno “dei nostri principi e dei nostri valori” la mobilitazione della piazza è stata coltivata anche in Georgia, altra repubblica ex sovietica. A Tbilisi, proprio come vent’anni prima contro il presidente Schevardnadze e la sua maggioranza in parlamento, è stata lanciata la protesta contro l’insediamento “illegittimo” dei deputati eletti e del presidente da loro votato per succedere all’ultra-atlantista Salomé Zourabichvili, a fine mandato. Al momento delle elezioni gli osservatori internazionali (ISFED e OSCE) non avevano ravvisato violazioni significative o tali da invalidare il risultato annunciato dalla Commissione elettorale. Ciononostante il tentativo di riproporre l’ennesima ‘rivoluzione colorata’ a ridosso della Russia è andato avanti per settimane, utilizzando gli stessi strumenti e le stesse risorse investite da Washington negli ultimi 25 anni, da Belgrado a Bishkek.

Nina Agrawal ha scritto a suo tempo una nota interessante sul Los Angeles Times, a proposito dei numerosi strumenti che il suo paese, gli Stati Uniti, utilizzano per promuovere i propri interessi: “Questi atti, eseguiti in segreto per due terzi del tempo, includono il finanziamento delle campagne elettorali di partiti specifici, la diffusione di disinformazione o propaganda, la formazione di persone del posto di una sola parte in varie tecniche di campagna elettorale o di incitamento al voto, l’aiuto a una parte nella progettazione dei materiali della propria campagna, la formulazione di dichiarazioni pubbliche o minacce a favore o contro un candidato e la fornitura o il ritiro di aiuti esteri“. E lo stesso Bandow, per incidens, ricorda che “nel 1996 Washington fece il possibile per garantire la rielezione di Boris Eltsin rispetto all’opposizione comunista. Gli Stati Uniti sostennero un prestito di 10,2 miliardi di dollari del FMI, una tangente mal camuffata usata dal governo Eltsin per la spesa sociale prima delle elezioni. Anche gli americani andarono in Russia per aiutare. La rivista Time mise Boris Eltsin in copertina con una bandiera americana; l’articolo era intitolato “Yanks to the Rescue: The Secret Story of How American Advisers Helped Yeltsin Win“. E ancora: “Nel 2000 Washington appoggiò il candidato presidenziale dell’opposizione Vojislav Kostunica contro Slobodan Milosevic, la bestia nera per gli americani nei Balcani. Gli USA fornirono denaro e apparecchiature di comunicazione all’opposizione (…). Successivamente gli USA si rivoltarono contro Kostunica per essere troppo indipendente e utilizzarono aiuti finanziari ‘pro-democrazia’ per aiutare i suoi oppositori”. E si potrebbe continuare, sfogliando le approfondite ricerche sulle interferenze elettorali pubblicate dalla Carnegie Mellon University di Pittsburg o dall’Università dell’Arizona. Del resto, la scomparsa nei giorni scorsi dell’ex presidente Jmmy Carter, che ho incontrato un paio di volte negli ultimi trent’anni, in Africa e in Indonesia, come uomo di pace in giro per il mondo, ci riporta a un momento decisivo della storia dei rapporti tra Washington e Mosca. Zbigniew Brzezinski, il suo consigliere per la sicurezza nazionale, in un’intervista del 1998 a Le Nouvel Observateur, ammise con soddisfazione che gli Stati Uniti avevano teso una trappola all’Urss. “In effetti, fu il 3 luglio 1979 che il presidente Carter firmò la prima direttiva per un aiuto segreto agli oppositori del regime filo-sovietico di Kabul. E proprio quel giorno, scrissi una nota al presidente in cui gli spiegai che, a mio parere, questo aiuto avrebbe indotto un intervento militare sovietico…Quell’operazione segreta era un’idea eccellente. Ebbe l’effetto di trascinare i russi nella trappola afghana, e vuoi che me ne penta? Il giorno in cui i sovietici attraversarono ufficialmente il confine, scrissi al presidente Carter, in sostanza: ‘Ora abbiamo l’opportunità di dare all’URSS la sua guerra in Vietnam’. In effetti, per quasi 10 anni, Mosca dovette portare avanti una guerra che era insostenibile per il regime, un conflitto che portò alla demoralizzazione e infine alla disgregazione dell’impero sovietico”. Il passaggio veniva citato quasi tre anni fa sul sito della London School of Economics da Robert H.Wade, a proposito delle dinamiche che avevano portato alla guerra in Ucraina. Oggi, invece Wade ci presenta un’analisi “eterodossa” dello stato del cambiamento climatico sul pianeta Terra, delle sue cause e dei possibili rimedi. Mentre l’ambasciatore Daniele Mancini si concentra su uno dei nodi cruciali degli equilibri internazionali dei prossimi anni: i rapporti tra l’America di Trump e l’India di Modi.

Senior correspondant

Alessandro Cassieri