“Non un pollice in più”. Due centimetri e mezzo, ma anche meno, e staremmo a commentare l’assassinio di Donald Trump. Salvo invece per miracolo, perché il cecchino che lo aveva preso di mira sapeva sparare, eccome. Dunque, attentato alla vita dell’ex presidente degli Stati Uniti, candidato più che mai in corsa per tornare a esserlo. Già prima del tentato omicidio di Butler, Pennsylvania, e più che mai adesso che da sopravvissuto può essere il perfetto testimonial di se stesso, ‘vittima dell’odio’ che i democratici gli hanno scatenato contro. Un duro colpo per Biden, già alle corde e alle prese con lo scetticismo crescente sulla sua competitività che, uno dopo l’altro, da Obama a Nancy Pelosi, ai senatori e ai congressisti dem, ai commentatori fino a ieri embedded del mainstream, ai donors famosi come George Clooney, gli stanno sempre più apertamente manifestando. Nel partito c’è il panico, alla Casa Bianca hanno tirato giù la saracinesca e provano a far finta di niente. Fino a quando? Fino alla convention di Chicago di metà agosto? Fino a quando si rivelerà inutile, e altrettanto prevedibilmente perdente, giocare la carta di un candidato alternativo al malmesso presidente uscente? Fatti americani con un impatto potenzialmente formidabile altrove. Pensiamo a Netanyahu, che da una rielezione di Trump spera di poter lucrare il sostegno minimo necessario per provare a sopravvivere politicamente nonostante l’obbrobrio del tiro al bersaglio contro i civili palestinesi a Ghaza, a Rafah, negli ospedali, nelle tendopoli. Ci sarà un giudice, se non “a Berlino” quantomeno all’Aja? Per molto meno Stati Uniti e Europa lanciarono una guerra contro la Jugoslavia e fecero languire in prigione, fino alla morte, il suo presidente prelevato con la forza a Belgrado. E pensiamo a Zelenski, aggrappato alla corazzata democratica per ottenere sempre di più in un conflitto che lo vedrà vincitore sempre meno. E pensiamo ai vertici dell’Unione Europea, ai governi progressisti di Macron, Scholz, Sanchez come a quello conservatore di Meloni, chiamati dagli eventi che si preannunciano all’orizzonte a correggere la propria linea. Qualcuno già sta preparandosi a farlo, altri – l’intendenza, avrebbe detto De Gaulle – seguiranno. Nel frattempo le elaborazioni strategiche evolvono. “Non un pollice in più” , in questo caso della Nato a est, era l’illusione conquistata prima da Gorbaciov e poi da Eltsin. Sappiamo com’è andata. Ma autorevoli storici americani, supportati dai documenti via via desecretati dagli archivi, ci hanno fatto capire che l’ultimo presidente dell’URSS e il primo presidente della Russia post-sovietica non si erano inventati le rassicurazioni di Bush padre, di Khol, di Clinton e dei segretari di Stato. Semplicemente non avevano avuto l’intelligenza politica, il cinismo, la lucidità per far mettere per iscritto quell’impegno. Diventa allora molto interessante seguire il “deep debate” in corso adesso negli Usa. Gli stessi storici che parlavano del “non un pollice in più a est” scrivono adesso dell’approdo finale possibile dell’Ucraina. Al di là dell’enfasi in occasione del 75° anniversario dell’Alleanza atlantica, nonostante il pressing del segretario generale uscente Stoltenberg, per Kiev le porte della Nato rimangono chiuse. Ancora per molto. Finché Zelenski vorrà mantenere il paese in guerra senz’altro. E forse dopo ancora. Perché la nuova cortina di ferro della Guerra fredda formato XXI secolo si compone anche di un migliaio di chilometri ultramilitarizzati, con territori che rimarranno a lungo in attesa delle definitive assegnazioni geografiche. Emerge, dal “deep debate” americano, la soluzione possibile. Lo ha appena scritto Mary Elise Sarotte su Foreign Affairs. Modello Norvegia post seconda Guerra mondiale o modello Germania pre-riunificazione. Col primo, l’Ucraina accetterebbe di essere un membro “a scartamento ridotto”, cioè senza la presenza di basi militari e tantomeno di armi nucleari sul proprio territorio. Col secondo, accetterebbe di essere membro dell’Alleanza atlantica per la sola parte di territorio ucraino non controllata dalle truppe russe. Con i propri confini “provvisoriamente” ridisegnati dalla guerra e con l’impegno a rinunciare al “ricorso alla forza per ottenere la riunificazione”, come fecero i tedeschi fino alla caduta del Muro di Berlino. Entrambe le soluzioni sono ostiche per Zelenski e il suo gruppo al potere a Kiev. Basta riandare ai preannunci di vittoria totale alla vigilia della controffensiva di primavera dell’anno scorso per quantificare il cambio di paradigma con cui deve fare i conti la leadership ucraina. Che oltre atlantico trova ormai pressoché solo sponde “realiste”: la guerra finirà al tavolo negoziale con la Russia e a quel tavolo Kiev potrà cercare di limitare le perdite. Dell’integrità territoriale (con Crimea e Donbass allargato) nessuno è più in grado di farsi carico. Ammesso che ci sia mai stato. Probabilmente, in un futuro non lontano, qualcuno sarà chiamato a rispondere delle occasioni perdute per limitare queste perdite territoriali. Per quelle umane si apriranno altri capitoli, estremamente dolorosi. Il presente, invece, è concentrato sulle elezioni americane, sulla possibile vittoria di Trump e sulle sue reali intenzioni in politica estera, guerra in Ucraina in primis. Tutto il resto verrà di conseguenza. Ma non per questo il mondo rimane fermo. Aldo Ferrari focalizza la sua analisi sul Caucaso, che continua a essere una regione ad alto tasso di criticità, con la Georgia contesa dal tandem Bruxelles-Washington e da Mosca, seguendo uno schema pericoloso e già destabilizzante all’inizio di questo secolo. Mentre Thomas Flichy de La Neuville ci porta nel cuore del continente asiatico per il braccio di ferro che le grandi potenze, Cina compresa, hanno ingaggiato per ottenere i massimi vantaggi dall’alleanza con la Birmania, a sua volta un paese attraversato da tensioni violente.