Giornate tese, attese e forse decisive. Così almeno, generalmente, si spera. Lunedì 20 gennaio l’insediamento del rieletto Donald Trump alla Casa Bianca, con relativo addio di Joe Biden. Un passaggio di consegne che ha avuto un prologo travagliato. Con il vecchio presidente democratico che ha fatto di tutto per rendere più complicato l’avvio del mandato presidenziale per il suo successore repubblicano. Vale per l’Ucraina, alla quale ha fatto consegnare ancora milioni di dollari e armamenti, insieme all’autorizzazione a colpire il territorio russo, lontano dal campo di battaglia, con i missili ATACMS. Ma anche per il Medio oriente, e in particolare per il conflitto israelo-palestinese e l’azione di Netanyahu oltre i confini storici della contesa: qualcosa di simile a una tregua, non proprio una “pax americana”, che metterà Trump nelle condizioni di dover inventare qualcosa di diverso e possibilmente di migliore di quanto fatto da Washington durante la strage di palestinesi (soprattutto civili) seguita al massacro del 7 ottobre 2023 da parte di Hamas. Se e quanto reggerà il compromesso su Gaza potremo verificarlo in un lasso di tempo relativamente breve. Cosa intenderà fare Trump è materia di previsioni e profezie. Nessuna certezza. Il mondo della politica internazionale, con annessi apparati diplomatici e di intelligence, naviga a vista. In attesa di capire quante delle indicazioni fornite da Trump negli ultimi mesi verranno confermate una volta tornato commander-in-chief. Le recentissime uscite del tycoon lasciano a dir poco perplessi. Parlando di interessi nazionali americani da rivendicare sulla Groenlandia, il Canada, il Canale di Panama e forse perfino il Mexico ha fatto trapelare una visione che inquieta più i suoi alleati, nel G7 e nella Nato, che i suoi avversari strategici, come Russia e Cina. Trump ha infatti rivitalizzato una dottrina che spesso ha accompagnato la concezione più muscolare della politica di vicinato dei presidenti americani, la dottrina Monroe, dal nome del presidente James Monroe che la battezzò due secoli fa, ottobre 1823. Dottrina per la quale non può esserci nessuna presenza di potenze straniere sui continenti americani: nord, centro e sud America considerati in blocco come territori vitali per gli interessi e la sicurezza nazionale degli Stati Uniti. Una visione che nell’ultimo secolo non era mai arrivata a mettere in discussione l’autonomia di paesi amici come il Canada, fedele partner in tutte le iniziative lanciate da Washington. Questa logica delle “aree di influenza” non può invece dispiacere Mosca, Pechino e nemmeno Ankara. Il riconoscimento di interessi nazionali nei territori contigui alle (grandi) potenze può rivelarsi un fattore di appeasement improvviso nell’attuale situazione di escalation permanente. Non resta che attendere per vedere se si tratta di una semplice boutade da parte di Trump, non nuovo a esagerazioni di ogni tipo, o piuttosto dei prodromi di una “dottrina Trump” che, in un’ottica di lungo periodo, può riecheggiare quella logica che da Yalta al 1991 ha governato il mondo. Una divisione dello scacchiere planetario sulla base di definite e rispettate aree di influenza. Nell’attesa può essere utile fare il punto sulla guerra più disastrosa e di più lunga durata in corso. E il focus di Gianandrea Gaiani consente di comprendere quale effettivamente sia lo stato delle cose sul lungo fronte russo-ucraino, al netto della propaganda. Un’analisi che rende comprensibile il cambio di passo di Zelenski, nelle ultime settimane, rispetto all’avvio di un negoziato con Putin. Thomas Flichy de la Neuville ci porta invece, attraverso un excursus storico, nella complessa realtà coreana, al cuore della crisi che ha sconvolto Seul, capitale di un altro presidio degli interessi dell’Occidente, stavolta in Asia.