Opinions #31/24

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Un allargamento del conflitto minacciato e sempre meno improbabile. Con gli attori di sempre che si accusano reciprocamente di genocidio. Evocando i peggiori fantasmi del passato, da Hitler a Saddam Hussein, e le loro tragiche sorti. È il Medio Oriente, quel quadrante che da decenni erutta tensioni sulla base dell’irrisolta questione palestinese. La guerra di Netanyahu e del suo governo ultranazionalista contro Hamas sta producendo decine di migliaia di morti tra i civili e una catastrofe umanitaria per sopravvissuti, feriti e rifugiati. Sta anche dissanguando Hamas ma non è destinata a distruggerlo definitivamente. In compenso sta saldando tutte le componenti anti-israeliane della regione. A cominciare da quelle più radicali, come Hezbollah sciita con i sunniti di Hamas. In più, sta facendo salire drammaticamente la tensione tra lo stato ebraico e due dei più armati paesi della regione, la Turchia di Erdogan e l’Iran degli ayatollah. Al presidente turco, che arriva ad evocare l’invasione di Israele se continuerà a fare strage tra i civili palestinesi, si aggiungono le minacce di Teheran, che si dice pronta a intervenire se Netanyahu dovesse portare il conflitto all’interno del Libano per colpire Hezbollah. Erdogan accusa di hitlerismo chi stermina i palestinesi. Tel Aviv risponde citando Saddam Hussein, le sue minacce sterili e la sua fine ingloriosa. L’efficacia degli omicidi mirati con cui colpisce i suoi nemici, ultimo il leader di Hamas Ismail Haniyeh, alimenta l’hubris di chi governa in Israele. Ma è come voler ignorare il cambio di epoca. Trent’anni fa Israele poteva contare sul sostegno incondizionato di tutto l’Occidente e del paese arabo più strategico, l’Arabia Saudita. Oggi no. Perfino gli Stati Uniti, che vedono ancora alla Casa Bianca il “sionista irlandese” Joe Biden, fanno fatica a seguire la spregiudicatezza di Netanyahu. Al quale anche Donald Trump ha rinfacciato di avere intrapreso una strada che porta all’isolamento di Israele. Non solo. È l’intero quadro dei rapporti di forza nella regione che è radicalmente cambiato. Con la Cina, come spiega nella sua analisi Pascal Boniface, che ormai punta a soppiantare gli Stati Uniti come paese di riferimento per trattative e negoziati. Il caso Hamas-Fatah è in questo senso clamoroso quanto gli accordi tra Riyadh e Teheran dell’anno scorso. E in questa nuova, generale dinamica diplomatica si inserisce anche la polemica all’interno dell’Unione Europea per l’iniziativa assunta dal presidente di turno, il premier ungherese Orban, protagonista di un attivismo che l’ha portato nel giro di pochi giorni a Kiev, Mosca, Pechino e Mar-a-Lago per tessere la trama di una soluzione realistica alla guerra in Ucraina. Criticato dai vertici comunitari a Bruxelles, Orban ha invece riportato l’Europa – spiega Massimo Nava – a quello che dovrebbe essere il suo principale ruolo: mediare nelle controversie per scongiurare i conflitti, non per alimentarli.

Senior correspondant

Alessandro Cassieri