Opinions #32/24

Opinions #32 / 24

Su Cina e Russia sono state scritte e dette molte cose, negli ultimi due anni. L’alleanza tra Putin e Xi è stata considerata “a tempo”. Perché il sostegno alla Russia nella sua guerra con l’Ucraina era controproducente per Pechino. Perché il rischio di sanzioni americane (e quindi del blocco G7) avrebbe indotto Xi a mollare l’amico Vladimir appena possibile. Molti hanno anche ricordato il fallimento dell’intesa tra Mao e Krushov che nel secolo scorso avrebbe dovuto portare i due imperi comunisti a vivere “mille anni di amicizia”, salvo farsi la guerra pochi anni dopo sulle acque dell’Ussuri. Tutte analisi ragionevoli, anche se viziate da quel wishful thinking tipicamente occidentale che porta a confondere dati oggettivi e speranze soggettive. Mese dopo mese, però, i profeti della disgregazione dell’intesa Mosca-Pechino hanno dovuto fare i conti non solo con la tenuta della solidarietà tra i due paesi, ma anche con la rafforzata manifestazione politica dell’intenzione di Xi di sostenere Putin. Per motivi che molti hanno individuato nel ruolo di leader che la Cina vuole assumere nel cosiddetto Global South: un mondo, prima attratto da Europa e Stati Uniti, in cui le forzature e il doppio standard nella valutazione delle responsabilità delle crisi e dei conflitti in atto risulta sempre meno accettabile. Più che mai adesso, con due guerre in corso – Ucraina e Gaza – che producono contorsionismi diplomatico/valoriali difficili da comprendere anche per le opinioni pubbliche euro-atlantiche. E più che mai dopo che il governo di Kiev, alle prese con il fallimento della Conferenza di pace fortemente voluta in Svizzera senza la presenza dei rappresentanti russi, ha cercato proprio a Pechino aiuto per riprendere un negoziato con Mosca fin qui negato per decreto legge a firma Zelenski. In realtà, dietro “l’alleanza senza limiti” tra Russia e Cina, c’è qualcosa di ulteriore e di più profondo. È la ricerca apparsa su Foreign Affairs di un grande esperto americano come Joseph Torigian a spiegarcelo. Torigian, specialista nei lavori sugli archivi (americani, russi e cinesi), ha ritrovato quelle che possono essere considerate le origini della vocazione filorussa di Xi Jinping. Origini che portano il nome di Xi Zhongxun, un funzionario di alto livello del Partito Comunista Cinese (PCC) degli anni Cinquanta, padre dell’attuale presidente. Xi Zhongxun per decenni ha incarnato la politico filo-sovietica di Pechino, andando incontro, per questo, a successi, punizioni e riconoscimenti, a seconda del clima ideologico del momento. Del padre, Xi Jinping ha assorbito quella predisposizione positiva nei confronti del mondo russo sintetizzata nella passione per due letterature, “quella cinese e quella russa”. Torigian, studioso conteso dalle più prestigiose università americane, è anche il teorico di un approccio originale alle fonti storiche che porta a selezionare gli argomenti “in base al divario più ampio tra il sottoutilizzo dei documenti disponibili e la loro importanza teorica e empirica”. Attraverso questo particolare prisma analitico Torigian trova un elemento fortemente personale nell’intesa tra Xi Jinping e Vladimir Putin, basata sull’esperienza del disorientamento che entrambi hanno dovuto affrontare. Putin con il crollo dell’Urss, Xi con i saliscendi del maoismo e del post-maoismo. Un altro fattore, questo, che rende entrambi i leader, per altro coetanei, consapevoli dei rischi della destabilizzazione e fautori, per converso, della stabilità. Delle relazioni internazionali in primis. Una solidità, quella delle intenzioni dei maggiori “autocrati”, che gioca positivamente – nella fase storica attuale – nelle scelte di paesi attratti da questo “nocciolo duro”. Premessa di un approdo nei BRICS, nella SCO, nel G20. In tutti quei fori internazionali in cui l’Occidente è escluso o in minoranza. Dinamiche che riguardano anche l’Iran, da decenni Stato “sorvegliato speciale”, che sul filo del rasoio di una tesissima situazione internazionale ha estratto dalle urne un nuovo presidente progressista. Scelta sorprendente che nell’analisi di Alberto Bradanini risulta meno clamorosa e potenzialmente incisiva di quanto la vulgata corrente suggerisca. Tutto il contrario di quanto comunque sta avvenendo in Europa. Dove le diverse elezioni, nazionali e comunitarie, hanno dato corpo – spiega Donald Sassoon – a una realtà contrastata e cacofonica, basata sul dato certo dell’instabilità.

Senior correspondant

Alessandro Cassieri