Opinions #33/24

Opinions #33 / 24

Pensata tremila anni fa nella culla della civiltà occidentale, la tregua olimpica non sempre ha raggiunto l’obiettivo prefissato. E questo già nell’antichità. In tempi recenti, era il 1992, il clima di bonaccia (apparente) seguito alla fine della Guerra fredda aveva indotto il Comitato olimpico internazionale (CIO) ad avventurarsi nel campo dell’ottimismo, prevedendo di proclamare la “Tregua olimpica” in occasione di tutte le Olimpiadi. Abbiamo visto con quale risultato. Guerre in corso nemmeno rallentate dalla coincidenza con i Giochi. Che pure in un passato relativamente recente si sono tenuti in una condizione ben lontana dallo spirito universale – oggi diremmo “globale” – che aveva ispirato i fondatori ellenici. Le Olimpiadi di Mosca del 1980 subirono il boicottaggio degli Stati Uniti, motivato con l’invasione sovietica dell’Afghanistan (un paio di decenni prima che i marines facessero altrettanto). Quattro anni dopo fu l’Urss a non partecipare, per ritorsione, ai giochi di Los Angeles. Da allora molto sangue è scorso sui campi di battaglia e le Olimpiadi continuano a essere vittime di altrettante mutilazioni. È però cambiata la ragione sociale delle assenze: non più per boicottaggio, deciso in passato dall’assente di turno, ma sanzioni, imposte dai governi dei paesi presenti. È il caso dei giochi 2024 appena conclusi a Parigi. Dove a essere tenuti fuori sono stati gli atleti di Russia e Bielorussia, causa guerra in Ucraina. E ha fatto allora un certo effetto assistere alla gioia (legittima), spensieratamente offerta alle telecamere e al pubblico di tutto il mondo, di quel manipolo di atleti israeliani, foderati nelle tute con i colori della bandiera nazionale, tripudianti sul podio. Una medaglia d’oro, cinque d’argento, una di bronzo per i rappresentati dello stato ebraico, conquistate mentre l’esercito del premier Netanyahu, a rischio mandato di cattura internazionale per crimini di guerra, portava al parossismo la sua guerra contro i palestinesi, Hamas, Hezbollah, Iran… Con improvviso sussulto di preoccupazione che ha fatto tossire qualcuno a Washington e a Bruxelles. Appena un accenno di indignazione perché la partita politica americana è in pieno svolgimento e nella dependance europea si è in fervida attesa di capire. Perché il vecchio “sionismo irlandese” di Biden impregna ancora la boiserie della Casa Bianca. Perché la candidata democratica a succedergli, Kamala Harris, deve stare attenta a non ingraziarsi l’elettorato filo-arabo di sinistra col rischio di perdere le centrali economico-elettorali ebraiche. Perché Trump, anche nelle sue prefigurazioni sugli assetti mediorientali, è inintelligibile. Tutto dentro una campagna elettorale drammatica e senza precedenti, raccontata da Andrew Spannaus, dove nessun colpo di scena può essere escluso. E che catalizza l’attenzione del mondo in maniera paralizzante. Proprio quando dai vertici politici-scientifici-etici dei maggiori paesi sarebbe lecito attendersi un surplus di vigilanza sulla moderna Lampada di Aladino a un passo dallo sprigionare il genio più malvagio: l’intelligenza artificiale che si vorrebbe portare a sistema nel campo degli armamenti. Con relativa perdita di controllo umano sulle guerre. Una prospettiva che Alessandro Politi, nella sua analisi, giudica arrivata sul limitare del non ritorno.

Senior correspondant

Alessandro Cassieri