Opinions #34/24

Opinions #34 / 24

La campagna elettorale americana entra nella fase decisiva con una girandola di notizie che riguardano i due canditati. Kamala Harris ha ereditato in un lampo il ruolo di front runner democratico dalle mani tremanti di Joe Biden, in un tripudio di commenti entusiastici dei suoi supporter, dei suoi sponsor politici e di gran parte dei media americani (e non solo). Donald Trump ha dimostrato di non gradire il cambio di avversario quando credeva di essere il sicuro vincitore sul ring del 5 novembre. “The Donald” fin qui non ha saputo far di meglio che insultare e ridicolizzare Kamala in quanto donna, in quanto afro-americana, in quanto estremista di sinistra… Scelta che i suoi consiglieri hanno cercato di correggere, temendo l’impatto sull’elettorato femminile, ma che il tycoon, che vuole tornare alla Casa Bianca, ha invece confermato e se possibile inasprito. Il candidato repubblicano punta su una contraddizione destinata a pesare in campo democratico: se Biden non è idoneo a sostenere una campagna elettorale come può essere in grado di guidare il paese fino al 20 gennaio, data di insediamento del prossimo presidente? I Clinton, gli Obama, la Pelosi non hanno fin qui saputo spiegare una incoerenza che colpisce gli elettori. È probabile che Trump usi l’argomento nel dibattito televisivo di settembre che lo contrapporrà alla Harris, in quello che si preannuncia come uno show politico elettrizzante per poco meno di cento milioni di telespettatori. Del resto non è quella la sola contraddizione sul tavolo. Il New York Times del 10 agosto ha pubblicato l’opinione di Ross Douthat dal titolo sferzante, “There is still a Biden scandal” (C’è ancora uno scandalo Biden). L’autore non fa riferimento allo scandalo dei soldi circolati in famiglia, per anni, in virtù del contratto milionario ottenuto da Hunter Biden – grazie al padre allora vicepresidente – dalla maggiore azienda dell’energia ucraina, la Burisma. Il processo sull’argomento comincerà all’inizio di settembre ed è prevedibile che l’immagine dell’attuale presidente non ne rimanga immune. Piuttosto, lo scandalo a cui si riferisce l’editorialista del New York Times, investe il mondo che ha ruotato intorno a Joe Biden negli anni alla Casa Bianca. Una specie di cordone sanitario che dall’inizio familiari, famigli e amici di sempre gli hanno costruito intorno per evitare le insidie delle uscite in campo aperto. Una rete di protezione della quale ha fatto parte anche il grosso del sistema americano dell’informazione. Il mainstream è stato così schiacciato nella sua partigianeria pro-Biden da nascondere all’opinione pubblica quello che senatori, congressisti, giornalisti sapevano da tempo ma che hanno tenuto sotto embargo fino all’evidenza innegabile. “Ad esempio, abbiamo appreso che Biden non aveva tenuto una riunione completa di governo dall’ottobre scorso e che si aspettavano solo domande preconfezionate. Abbiamo appreso che le sue capacità raggiungono il picco tra le 10:00 e le 16:00 e diminuiscono al di fuori di quella finestra di sei ore. Abbiamo appreso che i democratici del Congresso, i donatori liberali e alcuni giornalisti avevano tutti avuto a che fare con il declino di Biden, cosa di cui non avevano parlato pubblicamente fino al fiasco del dibattito di giugno”. I “principi e i valori” della principale liberaldemocrazia conculcati per superiori ragioni di convenienza: del Capo e dei suoi cortigiani. La battaglia politica viene condotta anche in questo modo. Così come la guerra al fronte può avere diverse declinazioni, a seconda del grado di ipocrisia nella quale si intende ammantarla. È il caso del conflitto tra Russia e Ucraina. Gianandrea Gaiani ne analizza gli ultimi sviluppi, con interessanti elementi che ne confermano la dimensione di “proxy war”, di guerra per procura ingaggiata dall’occidente euro-atlantico contro Mosca. Nelle pieghe dell’informazione “tecnica” americana qualcosa di significativo al riguardo era già emersa nei mesi scorsi, a maggio 2024, su AtlanticCouncil.org. Con Kathryn Levantovscaia, vicedirettrice del programma Forward Defense dello Scowcroft Center for Strategy and Security dell’Atlantic Council, che nella sua analisi sui benefici delle forniture americane a Kiev scriveva: “Le truppe in Ucraina che schierano armi statunitensi stanno fornendo un ciclo di feedback nel mondo reale sulla durabilità e l’accuratezza delle piattaforme statunitensi, nonché sulla loro interoperabilità e integrazione con i sistemi esistenti. Gli Stati Uniti stanno facendo l’inventario delle carenze e delle vulnerabilità, il tutto senza spendere un solo paio di stivali sul campo”. Bando all’ipocrisia, qualcuno oltreatlantico riesce a metterci la faccia. Ed è comunque meglio della politica dello struzzo così in voga, oltre che a Washington, nelle cancellerie europee. Meglio, per quel che resta dell’appeal occidentale in mondi un tempo ammaliati dal savoir-faire europeo e dalla ricchezza americana. Come l’India, paese conteso tra the West and the Rest, il cui travolgente sviluppo, spiega Daniele Mancini, presenta analogie e differenze importanti con quello cinese. India come terzo pilastro, vien da ricordare, di quel “Triangolo strategico” di cui cominciò a parlare sul finire degli anni Novanta del secolo scorso Evgenij Primakov, ministro degli esteri e primo ministro russo, alle prime avvisaglie di irrefrenabile unilateralismo da parte americana, lanciata con Bill Clinton verso il progressivo allargamento della Nato a est.

Senior correspondant

Alessandro Cassieri