C’è qualche curiosa analogia tra la strategia di Zelenski e quella di Netanyahu. I due conflitti a ridosso dell’Europa hanno come denominatore comune il modesto interesse americano a disinnescarli: vedi le rivelazioni apparse ad aprile e maggio 2024 su Foreign Affairs e New York Times sull’accordo raggiunto a Istanbul tra i negoziatori di Kiev e di Mosca, sei settimane dopo l’inizio del conflitto, bloccato per l’intervento di “terzi”. Ma soprattutto c’è il reiterato tentativo di allargare il conflitto in cui sono coinvolti. Il presidente ucraino, con il suo costante pressing nei confronti dell’Unione europea e degli Stati Uniti affinché gli consegnino il meglio della tecnologia militare di cui dispongono e gli diano l’autorizzazione a usarla per attaccare il cuore stesso della Russia, Mosca in primis, con missili a lungo raggio. Passo ormai vicino, con effetti potenzialmente devastanti, stante la dottrina militare russa sul ricorso all’armamento nucleare in caso di attacco sul proprio territorio. L’incursione nella regione di Kursk, da parte delle migliori unità a disposizione di Kiev, ha già fatto scattare un primo alert al riguardo. Senza che a Washington lo scetticismo dei militari sull’operazione lanciata da Zelenski sia stata affiancata da un invito politico alla moderazione. Contemporaneamente, Netanyahu prosegue nel gioco pericolosissimo dell’incendiario-pompiere-incendiario che minacciando un allargamento a Iran e Libano (senza escludere Siria e Yemen) del conflitto, che da quasi undici mesi è in corso a Gaza, gli consente di continuare la strage dei palestinesi. Anche in questo caso le timide riserve espresse dall’amministrazione Biden e l’afasia della sua vice Kamala Harris, che ne ha preso il posto come candidato del partito democratico alle presidenziali di novembre, non hanno minimamente intaccato il progetto del governo israeliano e del suo dominus di azzerare tutto ciò che circonda Hamas. A Gaza o ovunque si trovino i suoi leader. Anche quando si tratta dei negoziatori con i quali erano in corso trattative per la deescalation: è il caso di Ismail Haniyeh, ucciso a Teheran a fine luglio mentre partecipava all’insediamento del nuovo presidente iraniano. Provocazione doppia, in questo caso, che può contare sul moderato e sterile dissenso di Washington, analogamente a quanto sperimentato da Zelenski con l’invasione di Kursk e con il bombardamento delle centrali nucleari di Zaporizhzhia e di Kursk stessa. Nella dimensione allargata delle guerre in cui sono coinvolti, premier israeliano e presidente ucraino giocano la carta – per alcuni spregiudicata, per molti disperata – di uno stravolgimento complessivo in cui annacquare le responsabilità e rilanciare la rispettiva indispensabilità. War-games letali, che stanno moltiplicando le vittime, ma che sembrano destinati a una verifica programmata tra poco più di due mesi, con le elezioni americane del 5 novembre. A quel punto soprattutto Zelenski potrebbe ritrovarsi in difficoltà. In caso di vittoria di Trump, le sue obiezioni ad accettare una soluzione realistica dello scontro con Mosca avrebbero poco ascolto. Non solo perché “the Donald” vuole onorare la promessa di chiudere rapidamente la guerra trattando direttamente con Putin, a differenza da quanto fatto da Biden. Ma perché questa sarebbe la linea della sua amministrazione. Il candidato vicepresidente Vance non ha esitato a dichiarare che con Trump di nuovo alla Casa Bianca i fondi destinati a Kiev verrebbero drasticamente ridotti. Resta da vedere se il candidato repubblicano avrà la meglio sulla rivale democratica che sta godendo nei sondaggi dell’effetto novità e del sostegno del mainstream mediatico. Elementi importanti, ai quali Trump ha risposto ottenendo l’endorsement di Robert Kennedy jr. Il figlio di Bob nonché nipote di John, due icone senza tempo dell’universo democratico, entrambi assassinati, si è scontrato con il divieto del clan Biden di partecipare alle primarie democratiche e ha fatto campagna elettorale come indipendente, ottenendo buoni risultati ma senza riuscire a bucare il muro di ostilità e di censura che gli hanno riservato i principali media americani, CNN in testa. Nella certezza di non poter vincere, Kennedy ha scelto di stare con Trump. Tanti gli argomenti di dissenso con il tycoon, alcuni sui quali si possono intendere, ma uno su tutti è risultato decisivo: la promessa di riaprire i negoziati con la Russia e di porre fine alla guerra non appena fosse entrato in carica. “Un motivo sufficiente per sostenere Trump”, le parole di Kennedy jr. Un’alleanza che potrebbe spostare quel 2-3 per cento di voti decisivi per vincere la Casa Bianca, soprattutto negli stati in bilico. Gara politica ad alto tasso di drammaticità alla quale guardano con speranza o apprensione tutti i governanti. Auspicando o temendo conseguenze per la propria posizione. In Germania, a sua volta alle prese nelle prossime settimane con importanti sfide elettorali di carattere amministrativo, la crisi economica effetto della guerra russo-ucraina sta indebolendo un governo di coalizione già nato fragile. Heinz-Joachim Fischer, con l’approccio storico-teologico che lo ha reso celebre, analizza le costanti che nel corso dei secoli hanno portato i governanti tedeschi a dissipare il patrimonio nazionale di cui disponevano. Mentre Francisco Borba Ribeiro Neto dedica il suo focus al paradosso che in Brasile sta rallentando il presidente Lula: vincitore senza maggioranza, abbandonato dai poveri appena diventati quasi ricchi.