Un successo annunciato, una sconfitta temuta. La Germania ha archiviato il voto nei land di Turingia e Sassonia con la certezza che una fase politica va chiudendosi. A livello nazionale la coalizione “semaforo” guidata dal cancelliere Scholz, dall’inizio fragile e litigiosa, sembra destinata a concludere a fatica il quadriennio che scade a settembre del 2025. Socialdemocratici, verdi e liberali restano aggrappati al governo ma sono da tempo minoranza nel paese. Il campanello delle elezioni europee di giugno era già suonato fragorosamente ma quello arrivato domenica scorsa ha il sapore di un preannuncio di sfratto. Una sconfitta attesa ma non per questo meno bruciante: “risultato amaro” le parole di Scholz. A vincere, come previsto, sono stati la CDU (democratici cristiani) e soprattutto l’AfD, il partito dell’estrema destra che attira le mai sopite nostalgie nazistoidi sopravvissute al dopoguerra germanico. In Turingia il partito di Bjorn Hocke è stato il più votato: lo ha scelto un elettore su tre. In Sassonia è arrivato a un soffio dalla CDU, superando il 30 per cento dei voti. In Brandeburgo si voterà il 22 settembre e i sondaggi sembrano confermare la stessa tendenza. Si tratta di tre importanti land dell’ex Germania orientale, che per primi hanno patito gli effetti collaterali degli squilibri della riunificazione e poi della turbo-globalizzazione. Frustrazioni che sono state tenute sottotraccia nei lunghi anni della bonaccia economica ma che sono puntualmente esplose con la crisi che da tempo rallenta la “locomotiva tedesca”. Ma se il richiamo identitario, sovranista, nazionalista, antiimmigrazionista, antieuropeista dell’AfD consente al resto dell’arco politico di bollarlo come fascista e antidemocratico, ghettizzandolo all’opposizione, diverso è il discorso per l’altro partito emerso vincitore dalle urne: il BSW. Nato appena qualche mese fa, l’Alleanza Sahra Wagenknecht, dal nome della sua leader, costituisce un dilemma per le forze di sinistra. Già carismatica protagonista tra le fila della Linke, intellettuale raffinata, oratrice trascinante, la Wagenhnecht incarna una concezione nuova e spregiudicata di intendersi progressista. Socialista in campo sociale, sindacale e fiscale; conservatrice sulle questioni dell’immigrazione; sovranista all’interno dell’Unione Europea; critica della Nato; oppositrice del militarismo tedesco; contraria al riarmo ucraino. Una nozione di “Sinistra conservatrice”, secondo la felice definizione di Pierre Rimbert e Peter Wahal (Le Monde diplomatique) che non trova analogie in Europa ma che potrebbe trovarne in America, dove l’alleanza Trump-Kennedy sintetizza le stesse, contraddittorie vocazioni. Con il balzo al 12 per cento in Turingia e addirittura al 16 per cento in Sassonia, alla prima sfida elettorale, la Wagenknecht e il suo partito hanno ottime chances di entrare nel gioco delle alleanze dei due land ma anche, in prospettiva, dopo le prossime elezioni politiche, a livello federale. Al tappeto, nella morsa destra radicale-sinistra radicale si ritrovano i partiti che hanno governato negli ultimi tre anni. Se l’SPD ha trovato in Scholz solo la copia scolorita di predecessori della statura di Willy Brandt, Helmut Schmidt e Gerard Schroeder, i liberali hanno estenuato fino al limite la disponibilità a entrare in alleanze contraddittorie. Quanto ai Verdi, esaurita la gloriosa stagione ecologista-pacifista che li hanno fatti assurgere al rango di partito imprescindibile nell’agone tedesco, hanno dissipato il patrimionio elettorale divenendo i portacolori di quella Germania bellicista, atlantista e russofobica che dall’inizio del conflitto in Ucraina ha perso progressivamente consenso nell’opinione pubblica. A loro in particolare, e al cancelliere Scholz, viene messa in conto l’autolesionistica accettazione del sabotaggio al gasdotto North Stream. Un autogol strategico, concepito e realizzato dagli “alleati”, che ha portato l’economia tedesca sull’orlo della recessione per l’aumento vertiginoso del costo dell’energia, con relative ricadute sui ceti popolari che ora guardano alle formazioni estreme dello spettro politico. E agli sviluppi del futuro dopoguerra russo-ucraino è dedicata l’analisi di Thomas Flichy de La Neuville che coglie, nel prevedibile indebolimento dell’Ucraina, l’occasione dell’ennesimo riequilibrio delle forze tra Russia e Turchia. Mentre, da Città del Capo, Tim Murithi ci porta a focalizzare l’attenzione sul grande movimento di cui sono protagonisti oltre quaranta paesi africani, intenzionati a creare una vasta area di libero scambio. Una risposta, anche questa, ambiziosa e dall’esito incerto, alla crisi della globalizzazione.