Potrebbe essere un altro settembre amaro per Volodymyr Zelenski. Un anno fa, in questi giorni, doveva prendere atto del fallimento della preannunciatissima controffensiva di primavera. La mossa che avrebbe dovuto portare le truppe di Kiev a riconquistare Donbass e Crimea dopo aver ricacciato oltre confine i soldati di Mosca. La storia è andata diversamente, con il progressivo allargamento delle aree controllate dalle forze russe, ormai prossime a conquistare l’intero territorio delle regioni separatiste. Adesso, settembre 2024, il presidente ucraino deve registrare il graduale raffreddamento dei suoi alleati nel sostegno che gli avevano garantito “per tutto il tempo necessario”. In Europa si moltiplicano le voci di negoziati ai quali Kiev sarà chiamata a sedersi per arrivare a un cessate il fuoco, mettendo sul tavolo la rinuncia a parti del suo territorio. La retorica dell’“integrità territoriale dell’Ucraina”, messa in discussione dall’incapacità di Poroshenko e Zelenski di applicare la clausola fondamentale degli accordi di Minsk – il riconoscimento dello statuto autonomo per Donetsk e Lugansk – ha portato in due anni e mezzo di guerra alla perdita di quasi un quarto del Paese. In più, all’apice della campagna di convincimento lanciata in Europa e negli Stati Uniti per ottenere ancora sostegno militare e economico, Zelenski si è trovato di fronte a qualcosa di simile a un muro di gomma. A sostenerlo come un tempo non ha trovato che un pugno di governi, oltre ai sodali della prima ora come Stoltenberg e Borrell, non a caso prossimi entrambi a lasciare l’incarico, alla Nato il primo all’UE il secondo. Dopo aver subìto lo shock della perdita, alla prima missione, di uno dei pochissimi F-16 ottenuti dall’Occidente e dei due piloti che negli Stati Uniti erano stati addestrati, il presidente ucraino si è trovato nella scomoda posizione di dover spiegare il senso dell’incursione nella regione russa di Kursk (dove ha perso in un mese il 90 per cento dei reparti meglio addestrati, lì dispiegati) mentre le sue truppe cedevano una postazione dopo l’altra sul fronte orientale. Settembre 2024 reso ancora più amaro dalla risposta negativa ottenuta da Washington dopo il vertice di Ramstein. Il capo del Pentagono, Lloyd Austin, ha detto no a Zelenski alla fornitura di missili in grado di colpire in profondità il territorio russo “perché Mosca ha già provveduto ad arretrare i target” messi in lista dall’intelligence ucraina. Permane dunque la “linea rossa” tracciata dal Cremlino, oltre la quale l’aiuto occidentale a Kiev provocherebbe una ulteriore, imprevedibile escalation. Austin ha accompagnato questa decisione con l’annuncio di ulteriori 250 milioni di dollari destinati a Kiev (una goccia rispetto ai 61 miliardi stanziati da Biden) e con una considerazione che, pronunciata da un generale a quattro stelle, ha ulteriormente depresso Zelenski: non esiste “nessuna capacità” che potrebbe volgere la guerra in Ucraina a favore di Kiev. Non solo, in Germania dopo le elezioni regionali del primo settembre il dibattito politico ha cambiato tono. Il cancelliere Scholz, fin qui allineato sulle posizioni Kiev, prevede adesso due iniziative nel segno della discontinuità. La prima è una sua proposta di accordo che porti al cessate il fuoco, da sottoporre a Mosca e Kiev, che prevede la cessione di pezzi del territorio ucraino alla Russia. La seconda riguarda la decisione di fare piena luce sul sabotaggio del gasdotto North Stream, avvenuto due anni fa e ormai ufficialmente attribuito a mani occidentali. Due anni durante i quali il governo tedesco aveva evitato di affrontare l’argomento, nonostante si fosse rivelato devastante per l’economia del paese. Infine, altra nuvola nera sul cielo di Kiev: i sondaggi sulle presidenziali americane. A sorpresa l’effetto novità a favore di Kamala Harris sembra esaurito. In attesa che gli umori dell’elettorato si stabilizzino dopo il dibattito televisivo del 10 settembre sulla ABC resta il rafforzamento del consenso intorno alla candidatura di Trump. Un risultato che Nate Cohn, il capo analista politico del New York Times, nei giorni scorsi spiegava così: “sì, ha opinioni conservatrici su molti temi, come l’immigrazione. Ma ha anche assunto molte posizioni che un decennio fa sarebbero state più probabili per un democratico che per un repubblicano, come l’opposizione al taglio dei diritti, il sostegno a una relazione di cooperazione con la Russia o l’opposizione al libero scambio”. Dunque stavolta, contrariamente alla tradizione e soprattutto alla vulgata mediatica, la politica estera rischia di essere un argomento non irrilevante nella sfida per la Casa Bianca. E se “il cambiamento” richiesto da oltre il 60 per cento degli americani passa attraverso una minore esposizione internazionale, il sostegno a Trump di Robert Kennedy jr, favorevole al ripristino delle relazioni con Mosca, potrebbe rivelarsi decisivo. Tra meno di due mesi sapremo. Intanto, tra meno di un mese scoccherà il primo anniversario dell’inizio della guerra a Gaza, i cui orrori sembrano senza fine. Con il premier Netanyahu che continua nella sua caccia ai leader di Hamas falciando un numero spaventoso di civili palestinesi. Potendo contare sull’impotenza dell’Occidente in generale e del suo principale alleato in particolare. Una vicenda, analizzata con cruda chiarezza da Pascal Boniface, che vede incrociarsi le responsabilità di Tel Aviv con quelle di Washington. Mentre buona parte del resto del mondo trae, anche da questa situazione, ulteriore motivazione per un riequilibrio della governance globale. A cominciare dai massimi organi finanziari, come la Banca Mondiale. Un obiettivo, illustra dettagliatamente nella sua inchiesta Robert H. Wade, che deve fare i conti con la difesa a oltranza dei privilegi esistenti delle potenze occidentali.