“Il difficile non è iniziare una guerra, ma concluderla”. Henry Kissinger faceva questo sfoggio di saggezza non senza una nota autocritica, avendo gestito più di un conflitto. Il principe della diplomazia americana del Novecento ha fatto pochi proseliti, visto il presente bellico e bellicista del suo mondo euroatlantico. Eppure le condizioni per sventare l’escalation delle contese che ci assediano ci sarebbero state. Prendiamo il conflitto israelo-palestinese. Da quasi un anno la Casa Bianca chiede, invoca, reclama moderazione al premier Netanyahu, senza effetto alcuno. Una dopo l’altra le ‘linee rosse’ indicate da Washington sono state ignorate dal personaggio politico più divisivo della storia dello Stato ebraico. Eppure, ricordava la settimana scorsa su queste colonne Pascal Boniface, a Biden sarebbe bastato compiere un solo atto per ottenere quello che dichiarava di volere: bloccare i finanziamenti a Israele. Una enorme quantità di denaro che ogni anno gli Stati Uniti versano a Tel Aviv per garantirgli una schiacciante superiorità militare. Biden, “il sionista irlandese”, ha però accuratamente evitato di “tagliare le unghie” a Netanyahu. E la sua vicepresidente Kamala Harris, candidata alla Casa Bianca, non è stata fin qui in grado di accennare a un cambiamento sostanziale di questa linea. Una pavidità che è stata stigmatizzata nelle settimane scorse su Foreign Policy in un intervento dal titolo esplicativo, “America Has Pressured Israel Before and Can Do It Again”. A firmare l’opinion sulle pagine del magazine fondato da Samuel Huntington è la ricercatrice senior dell’Atlantic Council, Alia Brahimi. La quale ricostruisce un passaggio chiave delle relazioni tra Stati Uniti e Israele. “Anziché intraprendere mezze misure simboliche, l’amministrazione Biden potrebbe attingere alla vasta influenza degli Stati Uniti e prendere spunto da un predecessore del partito repubblicano: l’ex presidente Gorge HW Bush. Nel 1991 Bush Sr, e il suo segretario di Stato, James A. Baker, hanno chiarito che se Israele voleva ricevere un pacchetto di aiuti di 10 miliardi di dollari in garanzie di prestito avrebbe dovuto smettere di usare denaro statunitense per costruire insediamenti israeliani su terra palestinese”. Una scelta, quella di Bush, che si scontrò con la reazione furiosa del premier israeliano Shamir e della potentissima lobby guidata dall’American Israel Public Affairs Committee. Ma l’inquilino di allora della Casa Bianca si confermò deciso a condizionare gli aiuti a Israele al rispetto del diritto internazionale. “Non cederemo di un centimetro”, disse. E quella determinazione facilitò i negoziati che portarono prima alla Conferenza di pace sul Medio Oriente di Madrid e poi agli accordi di Oslo. Ovvero il punto più prossimo alla soluzione di un conflitto che si protraeva da 45 anni e che sarebbe tornato a infiammare la regione fino a oggi dopo l’assassinio di Ytzhak Rabin, nel ’95, per mano di un militante della destra radicale israeliana, seguace dei due ministri estremisti – Bezalel Smotrich e Itamar Ben Gvir – che oggi siedono nel governo Netanyahu. Guardare indietro può consentire di vedere più avanti. E allora, nel caso dell’altro conflitto in corso, quello russo-ucraino, andare oltre la consuetudine delle appartenenze può risultare eterodosso quanto utile. Prendiamo le elezioni presidenziali americane. L’endorsement di un democratico come Robert F. Kennedy jr a favore di Trump può essere assimilata alla variante introdotta da Bush nei confronti di Israele. Kennedy è su posizioni lontane da quelle di Trump su molti temi, a cominciare dai diritti, aborto in primis. Ma all’inizio di questa settimana è tornato a spiegare il perché di un passo che il partito democratico non gli perdonerà mai. “I neoconservatori che ci hanno spinto in guerre disastrose in Iraq, Libia e Siria hanno preso il controllo del Partito Democratico e ci stanno portando sull’orlo di un conflitto nucleare con la Russia. In questo momento, il nostro Paese sta fornendo all’Ucraina armi, addestramento e informazioni sugli obiettivi da colpire all’interno della Russia. Come reagiremmo se la Russia avesse basi militari al confine con il Messico e aiutasse il Messico a colpire raffinerie di petrolio, città e centrali nucleari in Texas?”. Quegli stessi neocons che condizionarono da subito (con la Dottrina Wolfowitz) il mandato del giovane presidente Clinton, eletto all’indomani della fine della Guerra Fredda e che – in assenza di qualsiasi Nemico – anziché ridurre il budget del Pentagono lo aumentò di un terzo. “Dobbiamo fare un passo indietro dall’orlo del precipizio, ora”, dice Kennedy Jr. “Ecco perché ho deciso di lasciare la corsa presidenziale e di sostenere Donald Trump. Dopo molte conversazioni con lui, credo che capisca la gravità di questa situazione. Trump ridurrà le tensioni con la Russia e porrà fine all’agenda neocon per la guerra con l’Iran e la Cina. Lo prendo in parola e lo manterrò fedele alla sua parola”. Vedremo se Trump tornerà alla Casa Bianca e vedremo, in quel caso, se manterrà (stavolta) la parola spesa con Kennedy. Nel frattempo altre contraddizioni crescono a livello internazionale. Messa provvisoriamente in secondo piano dall’immanenza dei conflitti, la lotta ai cambiamenti climatici rischia di rappresentare un altro terreno di scontro tra Nord e Sud del mondo. Nozioni geografiche che stanno sempre più rapidamente assumendo connotati geopolitici. Nella battaglia per ridurre l’inquinamento prodotto dalle attività umane The West and The Rest si affiancano nelle apparenze ma si distanziano nella sostanza. Il saggio di Emilio Lèbre La Rovere, frutto di un lungo lavoro in comune con Jean-Charles Hourcade, ci fa capire fino a che punto il poderoso lavoro di esperti e scienziati possa essere ridimensionato dagli interessi consolidati dei paesi sviluppati. Seguendo una dinamica simile, se non addirittura identica, a quella appena spiegata su Opinions da Robert H. Wade a proposito della molto attesa riforma della Banca Mondiale. Contrasti e contraddizioni che stanno dilagando, su altre politiche, nei paesi europei. Dove l’immigrazione è diventato il principale argomento di propaganda. Con la destra e la sua linea dura, e a tratti disumana, che fa da battistrada a una sinistra in ritardo nella gestione realistica di un problema di portata epocale. Con i governi socialdemocratici che scimmiottano quelli sovranisti. Con leader laburisti come il premier inglese Starmer che va a lezione dalla leader della destra italiana Meloni. Un disorientamento che Donald Sassoon stigmatizza nella sua analisi dedicata a un fenomeno tanto attuale quanto radicato nella storia europea: si chiama xenofobia.