Opinions #39/24

Opinions #39 / 24

Una settimana americana complicata per il presidente dell’Ucraina. Dopo averne anticipato il titolo ha finalmente potuto presentare il suo piano per mettere fine alla guerra con la Russia. I suoi interlocutori principali erano gli inquilini – attuale ex e prossimo – della Casa Bianca. E già questo è stato un problema. Zelenski ha perso per strada il suo più sicuro alleato contro Mosca, Biden, non ricandidabile, ma ha dovuto rivolgersi a lui per primo. Ragioni di galateo geopolitico ma non solo. Con il presidente uscente, Zelenski ha cercato di garantirsi una continuità nel caso di vittoria di Kamala Harris. Ma la candidata democratica è a sua volta impegnata a distanziarsi quanto più possibile dalle scelte di politica estera di Biden, che in questa fase decisiva della campagna elettorale si trova inchiodato alla responsabilità di non aver saputo gestire due conflitti sanguinosi. L’apocalisse mediorientale, come qualcuno l’ha battezzata, è fonte di grande imbarazzo per la Harris, ma anche il fronte ucraino, al cospetto di una maggioranza degli americani che vuole meno risorse finanziarie spese all’estero, è insidioso per l’alleata di Kiev. Infine, l’interlocutore più spigoloso: Donald Trump. L’ex presidente da tempo sostiene una soluzione che tenga conto delle esigenze di Mosca, e nell’ultimo mese ha imbarcato al suo fianco un democratico come Robert F. Kennedj jr che delle ragioni della Russia, e delle forzature di Stati Uniti e Nato, ha fatto parte sostanziale della sua campagna da candidato indipendente. In più, Trump ha una questione personale in sospeso con Zelenski. Appena eletto, nel 2019, gli chiese informazioni sugli “affari di famiglia” che i Biden – padre e figlio – avevano avviato a Kiev nella primavera del 2014, appena un mese dopo il cambio di regime seguito alla rivolta Euromaidan. Informazioni che Zelenski fornì col contagocce agli emissari di Trump, che ci contava per screditare Biden in vista delle elezioni del 2020. Sono passati anni, ma la commissione d’inchiesta del Congresso americano prima e il tribunale di Los Angeles all’inizio di questo mese hanno accumulato prove sufficienti a indurre Hunter Biden, il figlio affarista dell’attuale presidente, a dichiararsi colpevole di tutti i capi d’accusa. Rischia 17 anni di carcere, ma evitando che il processo proseguisse ha scongiurato l’imbarazzante passerella del padre di fronte ai giudici. Questo era l’asso che Trump sapeva di poter giocare contro Biden nella sfida del 5 novembre. Ma Biden è arrivato talmente debole al rush finale che il partito lo ha costretto a chiamarsi fuori dalla gara, a favore di Kamala Harris. La quale si conferma candidata temibile per Trump. In questi giorni i sondaggi la danno in leggero vantaggio o alla pari. Ma Andrew Spannaus, che nel 2016 fu tra i pochissimi convinti della vittoria di Trump su una lanciatissima Hillary Clinton (e che pubblicò alcuni mesi prima del voto un libro dal titolo “Perché vince Trump”) spiega nella sua analisi quanto sia fragile il vantaggio della Harris. In attesa di capire chi guiderà la superpotenza occidentale il mondo fa i conti con una delle ultime iniziative strategiche dell’era Biden. Il preannuncio di una nuova dottrina nucleare, ovvero di un ulteriore riarmo americano, viene analizzato dai paesi del Sud globale con preoccupazione. La motivazione addotta da Washington – la concorrenza cinese anche in campo nucleare militare – appare pretestuosa all’ambasciatore Alberto Bradanini. Che nella sua Opinion ci spiega perché.

Senior correspondant

Alessandro Cassieri