Se la cronaca politica avesse memoria anche le cerimonie degli addii conserverebbero la rilevanza che meritano. Addio al potere, nella fattispecie americano. Ovvero l’ultimo saluto del presidente uscente dalla Casa Bianca. Messaggi nella bottiglia che sarebbero indizi preziosi per gli analisti del presente. Joe Biden ha detto cose importanti nel suo ultimo discorso agli americani. Cose gravi. Ha denunciato la comparsa sulla scena nazionale politica, economica, finanziaria, industriale di una pericolosa oligarchia. Ovvero di una concentrazione senza precedenti di risorse finanziarie e strumenti per condizionare bisogni, desideri e voti del popolo statunitense. Il riferimento è ai super-ricchi che hanno trovato in Donald Trump il catalizzatore per un progetto che va oltre i confini nazionali. Ma che all’interno di quei confini sta ridisegnando la stessa democrazia americana cara agli apostoli di Tocqueville. Ua traiettoria che mettendo insieme i missili di Musk e la sua piattaforma X, Facebook di Zuckerberg, Amazon di Bezos e PayPal di Thiel, crea una realtà demiurgica al di sopra di ogni corpo intermedio tradizionale, come i partiti. Un primus, il presidente populista per definizione e a suo avviso “per volontà di Dio”, e la sua corte di straordinari realizzatori in ogni settore della società moderna. In attesa di vedere la bandiera a stelle e strisce su Marte, come preannunciato da Trump, il suo predecessore mette in guardia i connazionali, e non solo. Il dito di Biden viene puntato contro la deriva oligarchico-populista che concentra dentro la Casa Bianca una quantità inedita di poteri. Quanto convergenti sarà soggetto a verifica fin dai prossimi mesi. Di certo, risulta evidente che oggi non ci sia un solo angolo dell’immaginario collettivo risparmiato dall’ingerente offerta del club insediatosi nell’inner circle di Trump. Cosa ciò significhi per gli americani, per i paesi confinanti, per i governi avversari e soprattutto per quelli alleati è materia in divenire. Mexico e Canada possono a buon diritto essere inquieti, per non parlare di Panama e Groenlandia (alla voce Danimarca). Le promesse minacciose di una estensione degli Stati Uniti annunciata da Trump nel discorso di insediamento riecheggiano il peggio della dottrina Monroe (del 1823). Le parole scandite appena rimesso piede nello Studio ovale, a proposito di Russia e Ucraina, sembrano appartenere alla stessa categoria iperbolica, cara al tycoon. Ha detto che è interesse della Russia mettere fine alla guerra e che Putin dovrebbe rapidamente sedersi al tavolo del negoziato, al quale Zelenski è già pronto ad attovagliarsi. Trump vuole fare “il pacificatore” e gioca la sua partita dando segnali contrastanti: dopo aver minacciato e quasi insultato Zelenski, al quale non vuole più fornire miliardi e armamenti, mette pressione a Putin. Nemmeno ventiquattr’ore dopo, la molto pubblicizzata videoconferenza tra lo stesso Putin e Xi Jnping, all’insegna della rafforzata intesa tra i due alleati capofila del Sud Globale, dice che la partita a scacchi è appena cominciata. Così come il match con l’Europa. Preoccupata per il braccio littorio di Musk, per l’uscita Usa dagli accordi sul clima (così simile a quella di Bush jr dal trattato di Kyoto sottoscritto da Clinton), per l’abbandono dell’organizzazione mondiale della sanità, per il ritardo tecnologico rispetto ad americani e cinesi, e presto anche agli indiani. Anche qui, la “dittatura dell’immediatezza” (copyright Macron) porta i governanti europei a dimostrare inquietudine e a preannunciare risposte. Ma quali? Venticinque anni fa il progetto Galileo prevedeva una costellazione di satelliti per garantirsi un sistema di geolocalizzazione alternativo al Gps americano. Due clienti erano già pronti: la Russia post sovietica e la Cina in rapidissimo sviluppo. L’inazione dei governi e la volontaria reticenza della Gran Bretagna, allora membro-zavorra dell’UE, fecero il disastro. Dietro il quale c’era la posizione americana (leggi monito alla Commissione di Bruxelles del segretario alla Difesa Donald Rumsfeld) che non accettava l’autonomia europea in una tecnologia dual-use. Le gesticolazioni di oggi di Von der Leyen & co. arrivano tardi. L’amico Biden ha fatto male al club europeo come difficilmente potrà fare Trump. Dopando l’industria americana, esportando l’inflazione a livelli record, imponendo agli europei di rinunciare all’energia a basso costo dalla Russia, spingendoli a entrare in una logica di guerra, fino al capolavoro: indurli al riarmo individuale, sconnesso da qualsiasi strategia comunitaria. Un passo ad alto rischio che, abbinato al rigurgito nazionalistico presente in quasi tutti gli stati europei, avvicina il peggiore dei pericoli per un continente che dal mix riarmo-nazionalismo ha ottenuto due devastanti guerre mondiali. E allora, se sottraendosi alla “dittatura dell’immediatezza” i leader europei riuscissero a guardare al recente passato, troverebbero altri segnali nelle parole dei presidenti sulla soglia di uscita. Come quello lasciato tre giorni prima di concludere il secondo mandato da Dwight Eisenhower. Nel suo ultimo discorso alla nazione metteva in guardia gli americani dai rischi a cui veniva sottoposta la democrazia dal complesso militare-industriale americano. Era l’inizio degli anni Sessanta e la democrazia messa a rischio non fu solo quella degli Stati Uniti: la cronologia dei colpi di Stato in giro per il mondo dice molto al riguardo. Conclusione? C’è poco di nuovo nel nuovismo trumpiano. Diventano più sofisticati gli strumenti a disposizione, a cominciare dalla galassia satellitare di Musk, ma resta costante lo spirito della Nuova frontiera. Dove poi possa arrivare il TruMusk è già materia di dibattito. L’analisi di Alessandro Politi ci aiuta a individuarne il possibile perimetro. Mentre Heinz-Joaquin Fischer ci riporta sul lungo “regno” di Angela Merkel, autrice di un’autobiografia troppo indulgente, secondo lo storico e vaticanista tedesco. Perché a suo avviso i mali della Germania di oggi, e a strascico dell’Europa, risalgono agli anni del cancellierato di “Mutti”.