Opinions #40/24

Opinions #40 / 24

Eccolo sotto i nostri occhi il Nuovo ordine mondiale. Doveva essere un mondo capace di convivere a tutte le latitudini, una volta liberato dalla morsa del bipolarismo nucleare. Caduto il Muro, crollata l’Urss, dissolto il comunismo, scomparso dall’orizzonte ogni plausibile nemico, sul finire del secolo scorso sembravamo avviati a navigare in duratura bonaccia. E invece siamo in piena tempesta. E non casualmente. Se la Storia, come scrive Benoît Bréville nel suo editoriale (Le Monde diplomatique, ottobre 2024) non fosse costantemente manipolata nella sua narrazione, sarebbe facile risalire all’origine della instabilità minacciosa che ci assedia, fatta di riarmo e nazionalismo. E di guerre. Basterebbe seguire gli eventi e le decisioni, così come si sono succeduti a partire dal 1991, anno di svolta. L’illusione che la giovane generazione al potere in America (Clinton, Al Gore) fosse davvero proiettata verso una dimensione di pace e progresso durò solo qualche mese. Il tempo di rendersi conto, Bill Clinton per primo, che non solo la Storia non era finita, ma che sarebbe andata avanti come prima. Perché Eisenhower aveva ragione: la politica americana deve fare i conti con chi ha il potere per condizionarla. Lo chiamava “complesso militare-industriale”. Un sistema che, nonostante l’assenza di sfide al primato occidentale, ha lavorato per immaginarle. Riuscendo nell’impresa di far aumentare di un terzo il budget della difesa Usa, durante il doppio mandato di Clinton, quando la sua promessa elettorale era stata di ridurlo drasticamente. Il resto è venuto di conseguenza. Si creano i focolai per poter legittimare l’intervento dei pompieri. Vedi la Bosnia raccontata da Sara Flounders attraverso i documenti della Cia. Gli apparati a cui si riferiva l’ex generale e poi due volte presidente Eisenhower sono pronti a incassare i dividendi del caos. Oltre trent’anni dopo siamo qui a contare i frammenti del sogno infranto. Instabilità e sofferenze e stragi e distruzioni sono il nostro presente. Il Medio oriente, con la volutamente irrisolvibile questione palestinese, ne è il display più sconcertante. Per decenni Washington ha ritenuto primarie le esigenze di sicurezza di Israele e accessorio il diritto dei palestinesi a un proprio Stato. Nel solco di questa scelta strategica, fatta di potere della lobby ebraica in America e di volontà di presidio militare occidentale nella critica area del Golfo, tutto è stato consentito ai governi israeliani. Di negare ai palestinesi la loro parte di Palestina, di espandere i territori occupati, di favorire gli estremisti di Hamas per mettere fuori gioco la leadership politica degli eredi di Arafat, di rendere insopportabile la cattività di due milioni di palestinesi dietro il muro invalicabile di Gaza. Tutto questo – e questo è il paradosso – si rivela adesso imbarazzante per la Casa Bianca. Che dal governo israeliano viene sempre meno ascoltata, con un premier come Netanayhu che fa coriandoli di ogni bozza di accordo faticosamente concordata tra tutte le parti non per la pace, o un armistizio, o un cessate il fuoco. Ma per una modesta tregua di qualche giorno. “Provocatorio” è stato definito Netanyahu per il suo discorso della settimana scorsa all’assemblea generale dell’Onu. Si fa sapere che Biden “è arrabbiato” per non essere stato informato, di volta in volta, degli omicidi mirati, degli attacchi con i cercapersone esplosivi, dei bombardamenti delle basi nemiche in Cisgiordania, Siria, Iran, Iraq, Yemen… fino all’assassinio di Nasrallah a Beirut, fino all’invasione “limitata” del Libano. Biden apparentemente impotente, Kamala Harris scientemente silente, i “falchi” trumpiani che dal Congresso reclamano ulteriore carta bianca per Netanyahu. Ma potrebbe anche essere soltanto un gioco delle parti. Un caos organizzato per arrivare, alla fine, al vero obbiettivo: con Israele dominus militare del Medioriente, vassallo privilegiato di Washington, presidio proxy dello spazio di manovra Usa in un’area in cui Russia, Turchia, Iran e Cina hanno guadagnato rilevanza agli occhi delle opinioni pubbliche e delle masse arabe e mussulmane. Il declino di un impero si gestisce anche così, caricando di ruolo i governatori delle province. Un modo per cercare di rallentare le tendenze della Storia, lo svolgimento dei suoi cicli: dalla nascita all’apogeo alla decadenza. Roger Cohen nei giorni scorsi ha scritto sul New York Times che “Gli Stati Uniti hanno una leva duratura su Israele, in particolare sotto forma di aiuti militari costituito da un pacchetto da 15 miliardi di dollari firmato quest’anno dal presidente Biden. Ma un’alleanza ferrea con Israele, costruita attorno a considerazioni strategiche e politiche interne, nonché ai valori condivisi di due democrazie, significa che Washington quasi certamente non minaccerà mai di tagliare, per non parlare di interrompere, il flusso di armi”. Una contraddizione, solo apparente. Così come contraddittoria appare la posizione a sostegno dell’Ucraina. L’ultimo tour di Zelenski a New York è stato generoso di promesse ma avaro di risultati. Biden ha ribadito il suo supporto, finché sarà in carica. Harris si è detta pronta a proseguire la linea del predecessore. Ma Trump ha suonato un’altra musica e Zelenski ha dovuto mettersi in sintonia per non entrare in frizione con un possibile nuovo presidente intenzionato a fregiarsi del titolo di pacificatore. Nessuno, o pochi, sanno cosa farebbe Trump se tornasse alla Casa Bianca, ma la sola incertezza indebolisce le granitiche certezze del mondo che si è saldato intorno alle posizioni di Kiev. Non solo i leader europei, vedi Scholz, che d’improvviso tornano ad assaporare termini come “negoziati” e “accordi” con la Russia. Non solo gli esperti militari che sostengono l’inesistenza di un “game changer”, nonostante F-16 e missili a lungo raggio. Ma anche la gran parte dei media che ha sostenuto sic et simpliciter la linea dell’Ucraina, arrivando a confondere racconto e tifoseria, fotografa ora impietosamente la realtà delle cose: meno armi e munizioni, meno truppe, morale basso, ottantamila diserzioni, critiche dei soldati ai comandanti, mugugno popolare nei confronti di Zelenski… Lo stato delle cose lo illustra Gianandrea Gaiani, nella sua dettagliata analisi dell’andamento sul campo del conflitto. Mentre Pablo Iglesias, protagonista di una intensa stagione pacifista, spiega la drammatica parabola che ha portato la sinistra spagnola a diventare uno dei più zelanti sostenitori della Nato.

Senior correspondant

Alessandro Cassieri