Opinions #41/24

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Più di un anno dall’inizio dell’ennesima guerra in Medio Oriente, a rischio espansione; meno di un mese alle elezioni americane, le più tese e polarizzate della storia. Sullo sfondo, il più sanguinoso conflitto combattuto nel continente europeo dalla fine della Seconda guerra mondiale. È in questo quadro di destabilizzazione crescente che i focus degli analisti americani si concentrano sull’eventualità di una seconda presidenza Trump. Forse perché i sondaggi, dopo la svolta segnata dalla rinuncia di Biden e l’improvvisa candidatura di Kamala Harris, non danno segnali chiari di vantaggio per la sfidante democratica. Forse perché il curriculum presidenziale dell’ex tycoon offre maggiori spunti per tracciare previsioni sulle sue eventuali mosse da 47mo presidente degli Stati Uniti. Così, sui dossier roventi della politica internazionale si sviluppano teorie basate sui precedenti. Sul Medio Oriente le previsioni danno Trump intenzionato a sostenere Israele nella misura in cui risolva una volta per tutte la questione-Iran. Fu Trump a strappare l’accordo che la Casa Bianca ai tempi di Obama aveva faticosamente costruito con gli europei e con Mosca per fissare i paletti dello sviluppo nucleare di Teheran. Nucleare a uso civile. Trump ne fece una questione ideologica, non dissimile a quella che portò un altro presidente repubblicano, George Bush jr, a stracciare gli accordi di Kyoto sul clima pazientemente costruiti da Clinton e Al Gore. Trump, nel caos organizzato su cui Netanyahu ha puntato tutte le fiches per la sua sopravvivenza politica, evoca direttamente il bombardamento dei siti nucleari iraniani. Esattamente come oltre quarant’anni fa, era il 1981, Israele venne autorizzato a fare contro Osirak, il sito nucleare di Saddam Hussein. In questa “coerenza” Trump non fa che rafforzare la diffusa convinzione che la migliore assicurazione per ogni sistema politico o regime sia quello di dotarsi dell’arma atomica. Non è un caso che da allora si siano moltiplicati i paesi divenuti ufficialmente o ufficiosamente nucleari/militari. L’ambasciatore Bradanini ne ha scritto doviziosamente qui qualche settimana fa. E c’è anche un’altra coerenza su cui punta Trump in questo finale di campagna elettorale: la riconoscibilità del nemico. Nell’immaginario dell’elettore americano medio il mondo oltre i confini nazionali è cosa remota e poco conosciuta. I nomi dei governanti stranieri e dei loro paesi vengono spesso confusi anche dai politici di professione. Ma l’Iran è uno dei pochi riferimenti con cui il contribuente americano ha preso familiarità. Era il nemico di quasi mezzo secolo fa. Era il regime che aveva sequestrato per 444 giorni i diplomatici americani dell’ambasciata a Teheran. Era, per questo, l’avversario che ha impedito al presidente Carter di vincere il secondo mandato spianando la strada al trionfo di Reagan. L’attore di Hollywood divenuto uno dei miti più inossidabili dei conservatori al di là e al di qua dell’Atlantico. Sull’altro versante bellico, quello russo-ucraino, Trump che torna alla Casa Bianca suscita prefigurazioni contrapposte. Le sue dichiarazioni critiche nei confronti di Zelenski, abbinate a quelle del suo candidato vice James Vance, suscitano preoccupazione non solo a Kiev e nei circoli europei che hanno fatto causa comune con l’Ucraina, ma anche tra i funzionari del deep state. Gli stessi che amano però ricordare come Trump, nonostante le dichiarazioni a favore delle posizioni di Mosca, già nel 2016, è risultato un presidente aggressivo nei confronti della Russia, moltiplicando le sanzioni, inviando armi all’Ucraina e rafforzando la partnership con l’intelligence di Kiev. “Crush the Russians” il messaggio agli europei e agli ucraini dell’allora capo della Cia, Mike Pompeo. Lo ricorda il New York Times, citando anche la soddisfazione di un alto funzionario americano espressa in una battuta efficace: “The antibodies kicked in”, ovvero Trump era stato indotto a cambiare la sua posizione “filorussa”. Resta da capire se il precedente è destinato a riprodursi nell’eventuale prossimo mandato. Da allora molte cose sono cambiate. Trump non è più il neofita della politica e dei suoi poteri dietro le quinte. È il candidato che vuole vendicarsi di quelle agenzie, di quel deep state, che a suo avviso lo hanno ingiustamente perseguito a scopi politici “rubandogli” la vittoria su Biden nel 2020. Ed è anche il candidato che a fine agosto ha stretto un accordo con Robert Kennedy jr, nominato co-presidente del team di transizione, per mettere rapidamente fine alla guerra riconoscendo le ragioni della Russia. Nel quadro generale internazionale, intanto, si muovono altri fattori. La Turchia di Erdogan rompe gli indugi e chiede di entrare nei BRICS, prefigurando l’ingresso di un fondamentale membro della Nato nel gruppo che si contrappone all’egemonia euro-atlantica. Scelta strategica rilevante che Massimo Nava analizza attraverso il prisma della “doppiezza” del presidente turco. Mentre sbiadisce, col passare delle settimane, la figura del presidente Macron, vittima di una sua esclusiva scelta di politica interna. Dopo le elezioni anticipate di inizio estate l’instabilità è diventata la cifra senza precedenti della Quinta Repubblica. Marc Lazar ne esamina la genesi e le possibili evoluzioni. Che vanno dalla faticata sopravvivenza di un governo di minoranza, sostenuto dai partiti usciti sconfitti dalle urne, alla possibile ma improbabile destituzione di Macron. Segnando in ogni caso una fase di marginalità del ruolo della Francia nello scenario internazionale.

Senior correspondant

Alessandro Cassieri