Opinions #42/24

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A suo modo Netanyahu sta riuscendo in un capolavoro. Era un primo ministro alle corde, contestato dalla piazza per la sua crescente pulsione autoritaria, contestato dalle opposizioni e attaccato dalla sua stessa maggioranza. Era poco più di un anno fa. Oggi quel premier che sembrava sull’orlo di una disfatta personale impone le sue decisioni agli avversari interni, ai nemici regionali, agli alleati occidentali e al grande protettore americano. È successo tutto dopo il truculento attacco di Hamas del 7 ottobre dell’anno scorso. Il “capolavoro” di Netanyahu, a volerne restringere la genesi al suo ultimo governo nato meno di due anni fa, è frutto di una perfetta conoscenza dei suoi alleati. Il loro riflesso pavloviano di fronte alle azioni dello Stato ebraico, la loro ipocrisia nei confronti della causa palestinese, la loro complicità in una visione del Medio oriente funzionale all’unico schema risultato vincente ai tempi della Prima Guerra Fredda: il controllo diretto o indiretto delle risorse petrolifere della regione e delle sue vie di navigazione. Dentro questo quadro di storici interessi Netanyahu ha saputo giocare con i limiti autoimposti e con le incoerenze dei suoi alleati, anche i più critici. Che di fronte alla rappresaglia di Stato contro Hamas, condotta dall’esercito israeliano al di fuori di qualsiasi rispetto per la popolazione civile, massacrata senza pietà, hanno saputo solo esprimere dissenso. Nessuna decisione politica, come il riconoscimento dello stato palestinese che raccoglie poche adesioni all’interno dell’Unione europea. Nessuna sanzione economica e nemmeno simbolica, come l’esclusione dai contesti sportivi o culturali internazionali. Nessuna riduzione delle forniture di armi a un paese già potentissimo: un gigante contri i nani arabi o persiani che siano. Il richiamo alla “sicurezza di Israele”, rilanciato con forza fin dai tempi della prima Intifada, quando la minaccia era portata dagli adolescenti palestinesi a colpi di pietra, continua a essere il mantra con cui i governanti israeliani ipnotizzano gli alleati. Il paradosso di un ulteriore riarmo dello Stato di Israele, che è in grado di allargare contemporaneamente il proprio raggio d’azione militare a sette fronti (Gaza, Cisgiordania, Libano, Siria, Iraq, Yemen, Iran) è sotto i nostri occhi. Biden, il presidente americano uscente che ha dovuto ingoiare l’irrilevanza dei suoi moniti e delle sue richieste di moderazione a Netanyahu, di fronte a tre missili (sic!) che hanno raggiunto il cuore di Israele senza fare vittime decide di aggiungere ulteriore capacità militare agli arsenali di Tel Aviv. Dice di temere l’allargamento del conflitto all’intera regione, il vecchio presidente tirato via dalla campagna per la rielezione alla Casa Bianca per evidenti problemi psico-fisici. Ma conferma il finanziamento di 15 miliardi in armi per Netanyahu, come denunciava il mese scorso Roger Cohen sul New York Times. Non solo: di fronte alla ventilata intenzione di Netanyahu di bombardare le centrali nucleari e i pozzi petroliferi iraniani Biden sceglie di spegnere l’incendio con altra benzina. Come riferito il 14 ottobre da Phil Stewart e Jasper Ward sulla Reuters “gli Stati Uniti invieranno truppe americane in Israele insieme a un avanzato sistema antimissile statunitense, in uno spiegamento del tutto insolito”. Biden ha preso la decisione per “difendere Israele”. Reuters rileva che “uno spiegamento militare statunitense in Israele è raro al di fuori delle esercitazioni, date le capacità militari di Israele”. Aggiungendo che “il sistema di difesa aerea ad alta quota (THAAD) è una parte fondamentale dei sistemi di difesa aerea a più livelli dell’esercito statunitense e rafforza le già formidabili difese antimissile di Israele”. Difficile non cogliere l’incoerenza. Così come è difficile non vedere le contorsioni dei governanti europei per tenere insieme la linea intransigente a favore dell’Ucraina e quella balbettante sulla guerra portata da Netanyahu al di fuori del suo paese. Il sussulto provocato nelle capitali europee dall’attacco dei carri armati dello Stato ebraico alle truppe dell’Onu non ha ancora spinto ad azioni politiche significative. Difficilmente potranno esserci. Le elezioni americane incombono. Trump potrebbe essere di nuovo lì a dare man forte a Netanyahu. E nel caso vincesse la Harris nessuno crede che sarebbe in grado di far scendere il “grande freddo” nei rapporti con Israele, come si avventurò a fare Barak Obama pagandone un pesante prezzo politico in patria. Situazione che rischia di aggravare l’escalation. Rendendo ancora più angosciante la mappa dei conflitti in corso. Perché molte di più di quelle raccontate dai media sono le guerre che quotidianamente si combattono nel mondo, a cominciare dall’Africa. L’analisi dettagliata porta la firma di Mario Giro, ex viceministro degli esteri italiano e da sempre a fianco di Andrea Riccardi nelle attività della Comunità di Sant’Egidio, nota a livello internazionale come “L’Onu di Trastevere”. Una molteplicità di focolai che testimonia la criticità di un passaggio storico privo di riferimenti certi. Nel gioco dei nuovi equilibri globali che si profilano è allora preminente il ruolo che si ripropone di avere l’India. Bharat, come ci ricorda nel suo affresco l’ambasciatore Daniele Mancini, sarà un protagonista con cui l’Occidente – che se n’è creduto mallevadore nel periodo coloniale – dovrà fare presto i conti. E con l’Occidente le altre potenze. Perché la forza calma di un sub-continente affamato quanto ambizioso ha ormai superato la fase delle intenzioni per intraprendere quella delle realizzazioni.

Senior correspondant

Alessandro Cassieri