Doveva essere il momento decisivo. Per modificare la Costituzione e portare la Moldova nella sfera delle alleanze occidentali si è puntato tutto sul referendum popolare. Perché “all’articolo 11 della Costituzione è stata stipulata espressamente la norma imperativa che la Repubblica Moldova proclama il suo statuto di neutralità permanente”. Me lo diceva a Chisinau, scandendo le parole, uno dei padri del testo costituzionale moldavo, Nicolae Osmochescu. E il vicepresidente del Parlamento Mihai Popsoi, uomo di fiducia della presidente Maia Sandu, ammetteva che c’era molto lavoro da fare: “questa neutralità è qualcosa che dobbiamo valutare di nuovo. Vogliamo lanciare un dibattito nazionale sulla nostra neutralità, e sulle alternative per garantire la sicurezza della Moldova”. Era poco più di anno e mezzo fa e i tempi della elaborazione si preannunciavano lunghi. Ma da allora sui destini moldavi si è esercitata una fortissima pressione a Bruxelles, da parte dell’Unione europea e della Nato. Che ormai marciano affiancati. Popsoi è diventato nel frattempo ministro degli esteri. Il professor Osmochescu ha continuato a dispensare pillole di saggezza invitando alla prudenza. Il risultato è l’esito del referendum di domenica 20 ottobre, abbinato alle elezioni presidenziali. Un election-day convocato nella convinzione che la candidatura forte della Sandu per un secondo mandato avrebbe fatto da traino al SI alla modifica costituzionale. Per mesi l’unico timore aveva riguardato il quorum dei votanti. Nonostante una soglia molto bassa, fissata al 33 per cento degli aventi diritto, preoccupava l’invito all’astensione da parte delle opposizioni, a cominciare dalle forti componenti filorusse. E invece le opposizioni hanno alla fine invitato a non disertare i seggi. Producendo un effetto paradossale. Con i SI che hanno vinto con un margine risicatissimo (50,3 %) la marcia della Moldova verso la dimensione euroatlantica risulta adesso più incerta. Così come incerta appare la rielezione della Sandu, costretta al ballottaggio con lo sfidante socialista Alexandru Stoianoglo che il 3 novembre potrà contare – almeno sulla carta – sul sostegno degli altri partiti di opposizione. Un esito imprevisto per una strategia che voleva agganciare la collocazione geopolitica della Moldova a quella in fieri della confinante Ucraina. Un ulteriore, precipitoso allargamento a est che è inciampato per eccesso di velocità. A Washington e in alcune capitali europee si punta il dito sulla disinformazione russa e sui soldi fatti circolare da Mosca per comprare migliaia di voti. La replica punta sull’interferenza di Bruxelles che la settimana prima del voto, con la presidente della Commissione Von der Leyen, ha promesso a Chisinau 1,8 miliardi nel prossimo biennio. Eppure sarebbe bastato ascoltare i discorsi dei moldavi, nelle strade nei mercati o alle fermate degli autobus, per coglierne i sentimenti. Per una parte che guarda all’Occidente come una grande opportunità ce n’è un’altra che resta diffidente. Ed è la larga maggioranza che avrebbe relegato la Sandu – data alla vigilia per sicura vincitrice al primo turno con il 55-60 per cento dei voti – sotto uno sconfortante 40 per cento. A salvare lei e il referendum sono stati i moldavi della diaspora. Un terzo della popolazione complessiva che votando da Europa, Stati Uniti e Canada ha fatto conquistare “una vittoria che sa di sconfitta”, come ammettono a Chisinau nella cerchia della presidenza. Adesso tutto si gioca al secondo turno. Se la Sandu vincerà potrà ricominciare a tessere la tela dell’avvicinamento a Ue e Nato. Tenendo presente non solo la spaccatura tra gli elettori ma anche quella geopolitica che da oltre trent’anni vede la regione della Transnistria autoproclamatasi indipendente e orientata verso la Russia. Che lì mantiene un contingente militare. Chi parla di similitudini con il Donbass e l’Ucraina non lo fa a caso. Intanto il conto alla rovescia per il voto americano, che il 5 novembre condizionerà le dinamiche internazionali dei prossimi anni, è arrivato agli ultimi giri. Trump e Harris sono dati praticamente appaiati dai sondaggi. Nel voto popolare come nei collegi elettorali dei sette Stati storicamente indecisi che risulteranno determinanti. Andrew Spannaus, nella sua analisi, ci aiuta a capire perché nonostante il negativo “rumore di fondo” che da anni lo accompagna Trump sia più che mai in gioco. Con la sorprendente constatazione che l’elettorato gli riconosce una competenza nel governare che la Harris deve ancora dimostrare di poter garantire. Il contrario di quanto sta avvenendo in Germania, dove il Cancelliere Scholz sembra aver dissipato il credito iniziale nell’alleanza “contronatura” con liberali e verdi. Un errore che Heinz-Joachim Fischer individua come una delle molte cause all’origine dell’attuale declino tedesco.