Il voto in Georgia del 26 ottobre, con la vittoria del partito che vuole mantenere legami privilegiati con Mosca, potrebbe segnare la fine di un ciclo. Iniziato proprio a Tbilisi oltre vent’anni fa. Era il tempo della “rivoluzione delle rose”, che portò all’uscita di scena di Eduard Shevardnadze, il primo presidente della Georgia indipendente. Shevardnadze era stato il ministro degli esteri di Gorbaciov, l’uomo che all’estero aveva incarnato il volto rassicurante di una Unione sovietica convintamente avviata sulla via delle riforme nel segno di glasnost e perestrojka. Shevardnadze, da presidente, aveva anche dovuto combattere contro l’Abkazia filorussa, nel tentativo di mantenerla all’interno della Georgia. Senza riuscirci. E nel 2003 a muovergli la piazza contro, sull’onda delle accuse di brogli alle elezioni politiche, fu Mikheil Saakashvili, il suo pupillo, il suo ministro della Giustizia. Saakashwili, moglie olandese e formazione post-universitaria negli Stati Uniti, aveva un suo “sogno georgiano”: una Grande Georgia fuori dall’orbita di Mosca, inserita nella costellazione euroatlantica. Ovvero dentro Nato e Ue. Sappiamo com’è finita: con una guerra innescata da Tbilisi attaccando l’Ossezia del sud e con la conseguente invasione russa di un pezzo consistente del paese. La mediazione francese, con Sarkozy presidente di turno dell’Ue, limitò a cinque giornate la durata del conflitto. Sufficienti comunque a dissipare la credibilità dell’incendiario presidente georgiano per il quale, a Washington, Bill Clinton e John McCain avevano a un certo punto avanzato la candidatura a premio Nobel per la Pace. Ma quella di fine autunno 2003, nella ex piazza Lenin da poco ribattezzata piazza della Libertà, fu un momento di svolta. “Un vero colpo di Stato, altro che rivoluzione floreale” mi diceva un amareggiato Shevardnadze qualche settimana più tardi. Quasi confinato nella sua residenza in collina, il vecchio presidente era convinto che solo la sua saggezza aveva evitato un bagno di sangue. “C’erano già i carri armati pronti, fui io ad oppormi a uno sgombero violento della piazza”. Piazza occupata giorno e notte da migliaia di persone. In quei giorni si diceva che quella mobilitazione era costata qualche milione di lari, valuta locale: meno di un milione di dollari per modificare la geopolitica. Nulla in confronto ai cinque miliardi di dollari che Victoria Nuland, plenipotenziaria della politica americana per gli Affari europei e euroasiatici sotto svariati presidenti, avrebbe orgogliosamente rivendicato di aver investito per il regime change in Ucraina. Sta di fatto che la prima delle “rivoluzioni colorate” nello spazio ex sovietico sia stata lanciata a Tbilisi. Poi sarebbero seguite, a distanza di un anno l’una dall’altra, quella Arancione di Kiev, quella dei Tulipani in Kirghizistan, quella dei Jeans in Bielorussia… Con il voto del 26 ottobre la Georgia è tornata al punto di partenza. O quasi. La vocazione a rafforzare i rapporti con l’Europa non passerà per la rottura delle relazioni con la Russia. La nuova cortina di ferro instaurata da questa Seconda Guerra fredda non vedrà nel Caucaso un avamposto della Nato. Il partito guidato dal primo ministro Irakli Kobakhidze e ispirato dall’ex primo ministro Bidzina Ivanishvili, miliardario filorusso, ha vinto più largamente del previsto e con meno brogli del temuto, visto che le modalità di voto – dito di ogni elettore segnato con l’inchiostro, cabina elettorale con finestra per rendere visibile il votante, macchina elettronica anti contraffazioni, telecamera in ogni seggio – lasciavano pochi margini ai maneggi. Le proteste delle opposizioni filo-occidentali, per quanto previste e sostenute dall’estero, non cambieranno il dato di fondo. L’ISFED, istituzione indipendente che da trent’anni monitora le elezioni in Georgia, ha registrato sporadiche irregolarità in alcuni distretti ma non ha riscontrato violazioni significative nello spoglio dei voti. E l’OSCE non ha rilevato elementi tali da inficiare il risultato proclamato dalla Commissione elettorale. In attesa del ballottaggio delle elezioni presidenziali in Moldova, il voto in Georgia potrebbe piuttosto indicare un cambio di dinamica rispetto agli ultimi due anni, caratterizzati dalla polarizzazione internazionale scaturita dall’aggravarsi dello scontro tra Russia e Ucraina. Seguiranno poi, a strettissimo giro, le elezioni americane, vero turning point di questa drammatica stagione politico-militare. In attesa di capire che corso avrà il dopo-Biden si deve però registrare la delegittimazione dell’Onu da parte dei due campioni dell’Occidente. Prima Netanyahu e poi Zelenski hanno rifiutato di riconoscere all’Assemblea generale e al Segretario generale il ruolo che il consesso internazionale assegna al Palazzo di Vetro. Essendo, quello delle Nazioni Unite, l’unico foro in cui tutti i paesi sono in qualche modo rappresentati. Un foro che per una convivenza meno conflittuale a livello internazionale dovrebbe anzi essere rafforzato, come spiega lo storico AntonGiulio de Robertis. Mentre un altro storico, Thomas Flichy de La Neuville, ci porta in quello spicchio di mondo asiatico che all’ombra delle potenze regionali sta crescendo nella considerazione internazionale. Quel Bangladesh, divenuto una delle più efficienti e più sfruttate fabbriche del mondo, che nel cuore dell’estate ha dato vita a una rapida quanto radicale rivoluzione. Che ha portato alla precipitosa fuga all’estero di una prima ministra, Sheik Hasina, trasformata nei lunghi anni di potere da guida acclamata in tiranno. Sostituita da un personaggio generalmente apprezzato come Muhammad Yunus: economista, “banchiere dei poveri”, premio Nobel per la Pace. E amico degli Stati Uniti.