Opinions #45/24

Opinions #45 / 24

Senza se e senza ma. Più largamente del previsto. E senza contestazioni. Ha vinto Donald Trump, segnando un passaggio cruciale per la storia politica degli Stati Uniti. Non solo perché per la prima volta dai tempi di Grover Cleveland, alla fine dell’800, un ex presidente torna alla Casa Bianca dopo essere stato sconfitto alle elezioni precedenti. Ma perché il voto del 5 novembre 2024 si profila come uno spartiacque. Ci sarà un prima e un dopo Trump 2. Senz’altro negli affari interni e forse anche sul piano internazionale. A differenza del 2016, quando con la sua boriosa imprevedibilità arrivò al vertice del potere dopo aver sconfitto la superfavorita Hillary Clinton, stavolta The Donald rientrerà nello studio ovale con una dottrina definita per esercitare il potere. La sua Agenda 47 prevede una radicale trasformazione dei gangli del Sistema americano. Quello zoccolo duro con cui hanno dovuto fare i conti tutti gli inquilini della Casa Bianca. Altrimenti detto ‘deep State’.  Barak Obama per primo denunciò l’esistenza di un ‘playbook’ a cui tutti i presidenti devono attenersi, limitandosi solo a frenarne l’applicazione durante la sua amministrazione (evitando, ad esempio, di bombardare la Siria di Assad), Trump ha minacciato di fare a pezzi chi ha cercato di delegittimarlo. La lista è lunga, e non passerà attraverso il consueto, brutale ma accettato spoil system. Il ‘cambiamento’ che ha promesso agli elettori prevede un irregimentamento dei funzionari dello Stato. Nominati per adesione e fedeltà, e non più scelti secondo il curriculum. Il principio alla base dell’Agenda 47, ispirata dal think tank ultraconservatore della Heritage Foundation, intende espandere il potere presidenziale in tutti settori, da quello della giustizia alla sanità, dall’istruzione all’industria militare. In prima fila, nel mirino di Trump, ci sono le agenzie federali, a cominciare da quelle di intelligence. Una estensione dei poteri della Casa Bianca che nei mesi scorsi ha provocato veementi critiche per quella che si teme possa rappresentare una svolta autoritaria fin qui estranea alla tradizione americana. A sorpresa, una campagna elettorale centrata sulla trasformazione dell’avversario in ‘nemico’, alimentata da insulti e calunnie, resa a tratti paradossale e volgare dagli eccessi di Trump, ha alla fine ottenuto un risultato clamoroso nelle urne. Trump, che ha indicato nell’Fbi e nei giudici, in Biden e nei democratici, nella stampa mainstream e negli immigrati gli oppositori dell’America che vuole fare “di nuovo grande” (MAGA), è riuscito a mobilitare non solo il suo elettorato tradizionalmente conservatore, muscolare, maschilista, sostanzialmente razzista, ma anche le componenti della nuova classe degli ex poveri: gli immigrati da poco regolarizzati. E più donne del prevedibile. “E’ l’America, bellezza !”, si potrebbe dire parafrasando Humphrey Bogart. Una superpotenza inquieta, divisa e rancorosa al suo interno, che ha una formidabile capacità di condizionamento a livello globale. Il fiato sospeso destinato ad accompagnare in tutte le cancellerie le prime mosse del Trump 2 si spiega con le promesse, o le minacce, pronunciate durante la campagna elettorale. La promessa di mettere fine alle guerre esplose nell’era Biden suona in maniera ambigua in certe capitali. A Kiev si teme il disimpegno americano. A Mosca si guarda agli atti concreti, generalmente ostili, promossi da Trump durante il primo mandato. A Tel Aviv, Netanyahu può contare sul sostegno di lunga data di Trump che però, essendo di formazione un businessman pragmatico e non un viscerale “sionista irlandese” come Biden, sarà poco intenzionato a vedere ancora stragi di civili a Gaza o in Libano. Del resto lo ha promesso agli arabo-americani del Michigan, che gli hanno creduto, consentendogli di sbriciolare il blue wall su cui contava la Harris per vincere. Pechino e Teheran aspettano di capire se Trump vorrà essere quello che ha annunciato: un presidente che chiude le guerre, non che le avvia. In continuità con quanto fatto in passato. “Promessa fatta, promessa mantenuta” ha scandito appena rieletto. Su questo, l’impegno assunto quando ha invitato il democratico Robert F. Kennedy jr a sostenerlo è stato ribadito con forza in campagna elettorale. E Kennedy è nel frattempo stato nominato co-direttore del team di transizione che agirà per conto di Trump fino all’insediamento del 20 gennaio. In posizione scomoda si ritrova nel suo insieme l’Europa. Ancillare nei confronti di Biden, si trova a dover riorganizzare le sue relazioni con un presidente che è l’antitesi del suo predecessore. I primi contorsionismi sono già in atto. Le modalità per smussare le intenzioni dichiarate dell’ex tycoon su dazi e spese militari sono invece tutte da trovare. In diversi governi europei di ispirazione nazionalista il ritorno di Trump può significare molte cose. A cominciare da un diverso sentire nei confronti dell’Unione europea. Il terreno è fertile, come dimostrato dalle svariate tornate elettorali di questi ultimi mesi. E non mancano le avvisaglie di quello che potrebbe significare il rinascente interesse nazionale. Le evidenzia Massimo Nava, nella sua analisi dei rapporti tra Polonia e Ucraina. Mentre Tim Murithi punta il focus su un’altra area del mondo, meno distante per gli equilibri socio-economici europei di quanto generalmente si pensi. Un grande pezzo di Africa che sta organizzandosi per affrancarsi dalla presa delle ex potenze coloniali: il Sahel.

Senior correspondant

Alessandro Cassieri