Opinions #46/23

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Negoziatori cercasi

Dopo le prime settimane di disorientamento di fronte alla nuova guerra israelo-palestinese assistiamo a una frenesia diplomatica che partendo da Washington attraversa il medio oriente, lambisce l’Europa, guarda alla Cina e si preoccupa della Russia. Un attivismo, quello innescato dalla Casa Bianca, che è frutto di molte ragioni.

La principale vede per consuetudine gli Stati Uniti impegnati su tutti i focolai di crisi, quelli spontanei come quelli più o meno involontariamente coltivati. La prima superpotenza è l’unica che possa imporre agli altri di abbassare i toni, ridurre il volume di fuoco, accedere a una tregua, possibilmente a un cessate il fuoco, magari a una parvenza di pace. E’ la lettura da manuale novecentesco, ancorato alla concezione post-bipolare del mondo.

Ma ce ne sono altre, di motivazioni, per questa stagione difficile e convulsa della diplomazia. E risiedono in gran parte negli Stati Uniti. Dove la politica, la società, l’accademia, Hollywood si sono spaccati di fronte alle derive in corso in quel quadrante nevralgico, per gli equilibri globali, che è il Medio Oriente.

Gettando benzina sul fuoco, con lo spostamento dell’ambasciata americana da Tel Aviv a Gerusalemme, o tentando lo strike del secolo con gli accordi di Abramo, le mosse di Trump hanno innescato dinamiche di segno troppo contrastante per poter risultare vincenti. Soffocare la questione palestinese puntando su un giro largo di alleanze tra Israele e il mondo arabo che lo circonda, Arabia Saudita inclusa, isolando ulteriormente l’Iran, si è rivelata una scorciatoia ad alto rischio. Il suo successore alla Casa Bianca lo ha voluto correre, nonostante qualche lampante controindicazione. E oggi Biden deve correre, e far correre il suo segretario di Stato, per cercare di contenere i danni.

Quando da Gaza è partito un attacco militare senza precedenti, perché senza precedenti era la posta in gioco per la popolazione palestinese e per i suoi miliziani armati, è apparso subito chiaro che stavolta non sarebbe stata come le precedenti. Quando il governo israeliano rispondeva con bombardamenti massicci a lanci sporadici di razzi. Operazioni come ‘Piogge estive’, ‘Inverno caldo’, ‘Colonne di nuvole’, ‘Piombo fuso’ o ‘Margine di protezione’: campagne militari dall’esito scontato, dove Tzahal, l’esercito israeliano, sperimentava la potenza di nuove armi con pochissimi rischi. Il bilancio complessivo delle vittime di quelle campagne è indicativo: 118 morti tra gli israeliani, 3.853 tra i palestinesi, con un rapporto 1 a 32.

Gli attentati portati dalle milizie di Hamas negli ultimi vent’anni erano insidiosi per Israele ma inutili, se non controproducenti, sul piano politico internazionale. La portata volutamente spettacolare degli attacchi del 7 ottobre, col corollario di indicibili brutalità di chi li ha compiuti, ha invece rappresentato l’innesco per una diversa considerazione del problema palestinese. Tenuto forzosamente sotto il tappeto della Storia, è riemerso in tutta la sua violenta evidenza. Ed è qui che l’attivismo americano è dovuto entrare in gioco.

La novità, però, è che da sola Washington non è in grado di imporre moderazione nemmeno all’alleato Netanyahu. Il premier israeliano ha risposto con un’alzata di spalle non solo a Blinken ma anche a Biden e al Pentagono. Adesso da israeliano il problema è diventato ingombrante anche per gli Stati Uniti. Che vedono sauditi e iraniani superare vecchi conflitti nel comune sostegno ai palestinesi. Così come egiziani e giordani, siriani e qatarioti, emiratini e yemeniti. Governi sunniti o sciiti che devono fare i conti con le masse mussulmane, arabe e non, scese in piazza per protestare contro la catastrofe umanitaria in cui si è avvitata la risposta militare israeliana. Echi di proteste che fanno vibrare anche le piazze europee storicamente più inquiete, a cominciare da quelle francesi e britanniche.

Un grosso focolaio è esploso e stavolta il vulcano su cui è poggiato dà segnali di attività. Disinnescare la miccia diventa prioritario, in una stagione elettorale che vede Biden in difficoltà non solo nei confronti dello sfidante repubblicano ma anche all’interno del suo partito. Da qui l’esigenza dettata dalla Casa Bianca di arrivare il prima possibile, sia pure per gradi, al silenzio delle armi. Gli obiettivi di Israele non coincidono più con quelli degli Stati Uniti e un negoziato in corso è il modo migliore per andare in campagna elettorale, cercando nel contempo di non peggiorare le cose con Cina e Russia.

Del resto, già sei mesi fa, analisti e consiglieri americani sostenevano che il tempo dell’aiuto incondizionato all’alleato era scaduto, che gli Stati Uniti, in quanto potenza globale, dovevano tornare a difendere interessi più generali. “Non è saggio proseguire perchè i suoi obiettivi stanno entrando in conflitto con altri interessi dell’Occidente” scrivevano, su Foreign Affairs, Richard Haas e Charles Kupchan. Si riferivano a Zelensky, potrebbe valere oggi per Netanyahu.

Senior correspondant

Alessandro Cassieri