Opinions #46/24

Opinions #46 / 24

Avviso ai naviganti, nell’etere come nel web. Ovvero a tutti noi. Stiamo entrando nella fase più acuta della turbolenza mediatica. Le guerre in corso sono entrambe alla vigilia di una svolta. E i ballon d’essai, le fughe in avanti, le mistificazioni che già hanno caratterizzato (anche) questi conflitti sono destinati a moltiplicarsi. Li stiamo già registrando dalle ore immediatamente successive alla elezione di Donald Trump. Al tycoon tornato clamorosamente al vertice del potere sono state attribuite intenzioni varie ma anche contraddittorie, su ciò che intende fare con Putin, Zelenski e Netanyahu. Nulla di sicuro, di confermato, ma la verve delle “gole profonde”, degli opinionisti interessati, delle fonti anonime produce a pieno regime. Informazioni e fake news. La Storia al tempo di “X” si vorrebbe confezionarla ai ritmi vertiginosi dei videogiochi. Non funziona così, ma molti fanno finta di non saperlo. E tra loro anche quei governanti nazionali o sovranazionali – come i dirigenti uscenti o subentranti nelle istituzioni europee, saldamente in charge o a un passo dalle dimissioni – che si prodigano nel cercare di ispessire la nebbia che avvolge la diplomazia in divenire. Impegni a mantenere invariato il sostegno all’Ucraina, come se alla Casa Bianca dovesse rimanere ancora per anni Joseph Robinette Biden. O se la sua vice Kamala Harris avesse vinto le elezioni. Oppure luce verde senza se e senza ma alla logica “delenda Gaza” che si è impadronita del governo israeliano. Oppure, ancora, l’intenzione di chiudere i conti, una volta per tutte, con il regime degli ayatollah a Teheran. Tutte ipotesi, nessuna certezza. Ma sufficienti a creare quel clima che – ha scritto questa settimana Connor Echols sul Washington Post – vorrebbe riportare l’America al 2003. A quel “nation building” che ha prodotto i disastri americani in Afghanistan e in Iraq. E che ha eroso la leadership morale degli Stati Uniti, per questo oggi invisi a un mondo vasto che va ben oltre Russia, Cina, Iran, Corea del Nord e BRICS discorrendo. Trump non si è ancora espresso ma viene già interpretato. Dimenticando, o facendo finta di ignorare, che stavolta la principale battaglia la condurrà contro il deep state, i poteri forti che lo hanno incartato durante il primo mandato e che lo hanno braccato col ritorno dei dem alla Casa Bianca. L’ambizione di un businessman che dalla vita e dalla politica ha avuto tutto potrebbe, invece, essere quella di ritagliarsi un posto nella Storia in discontinuità con i suoi predecessori. Un presidente che chiude le guerre, non che le inizia. Come sostanzialmente ha fatto durante la prima esperienza da Comandante in capo. E come si è impegnato a fare quando ha chiesto a Robert Kennedy jr di ritirarsi dalla campagna elettorale come candidato indipendente e di sostenerlo. Il primo punto del programma di Kennedy era quello di concludere subito la guerra in Ucraina (quella a Gaza non era ancora deflagrata), partendo dalla considerazione che di quel conflitto le responsabilità maggiori erano degli Stati Uniti, per aver spinto la Nato troppo oltre. Fino “ad abbaiare ai confini della Russia”: copyright di Papa Francesco. A voler stare alle anticipazioni ufficialmente espresse, altre – semmai – potrebbero essere le aspettative. Per quello che ha detto il vice presidente in pectore J.D. Vance sull’Ucraina. O il figlio di Trump, Donald jr, su Zelenski e la “paghetta” che non prenderà più da Washington. O Elon Musk sulla fine dell’era dei guerrafondai, subito dopo la telefonata Trump-Zelenski. Per non parlare dei preannunci pochissimo rassicuranti per Kiev venuti da pezzi importanti del partito repubblicano. Tutte posizioni che dovranno confrontarsi con la realtà, probabilmente destinate a essere corrette. Ma intanto nell’etere e nel web trovano molto maggiore spazio le voci di chi spera nell’opposto. E sono molti. Soprattutto in Europa. Un paradosso della Storia, considerato l’impatto nefasto che ha avuto la mala gestione della contesa tra Russia e Ucraina proprio da parte dei principali governi europei. Avrebbero potuto sventare il ricorso alle armi favorendo la soluzione amministrativa dell’autonomia di Donetsk e Lugansk. Poi avrebbero potuto pretendere l’applicazione degli accordi di Minsk, a cui prima Poroshenko e poi Zelenski hanno rinunciato di fronte alla minacciosa reazione degli ultranazionalisti ucraini, zoccolo duro del loro stesso elettorato. Berlino, Parigi e Londra, per citare i pesi massimi continentali, avrebbero avuto ancora una chance per fermare la guerra nelle settimane successive all’ingresso delle truppe russe in Ucraina: era il tempo dei negoziati di Istanbul, condotti da Erdogan e affossati da alcune cancellerie europee quando erano a un passo dalla ratifica. Come documentato nella primavera scorsa dalle inchieste di Foreign Affairs e del New York Times. Adesso l’Europa che non doveva essere vassalla (copyright di Macron) si trova in condizione ancillare nei confronti dell’America. Un’Europa “sovrana e adulta” che avrebbe affrontato le Grandi potenze – Cina, Russia e Usa – consapevole della propria forza. E invece, grazie a una guerra che non ha fatto abbastanza paura mentre si avvicinava, vedremo i diversi governi nazionali, in ordine sparso, cercare di limitare i danni trattando individualmente con Trump. Come i lillipuziani nel regno di Gulliver. E come Trump sia riuscito nell’impresa di tornare sulla cuspide del mondo (quantomeno di quello euroatlantico) lo spiega nella sua analisi Andrew Spannaus. Mentre Mario Giro, che come pochi continua a constatare di persona lo sviluppo delle crisi e l’incancrenirsi dei conflitti, ci propone una riflessione amara sul futuro di un Medio Oriente in fiamme.

Senior correspondant

Alessandro Cassieri