Donald Trump vince largamente le elezioni americane, il cancelliere tedesco Scholz telefona al presidente russo Putin e improvvisamente una scossa attraversa l’establishment europeo. Che si ritrova senza punti di riferimento certi. Nella scia dell’atlantismo classico dell’era Biden avevano trovato un agevole approdo i conservatori e i progressisti del Vecchio continente. Al riparo della formula “in difesa dei nostri principi e dei nostri valori” si erano accalcati dietro i falchi che spingevano per un confronto muscolare con la Russia e per una prosecuzione della guerra. Gli stessi che si erano adoperati per far fallire gli accordi di Minsk e poi il negoziato di Istanbul, a conflitto avviato. Il disorientamento delle leadership europee è apparso evidente nella cacofonia che ha preceduto e accompagnato il giorno numero mille della guerra russo/ucraina. Con il G7 che rilanciava il suo più fermo sostegno all’Ucraina, “per tutto il tempo necessario» e la piena solidarietà di Usa, Francia, Germania, Italia, Gran Bretagna, Canada e Giappone “nel contribuire alla sua lotta per la sovranità, la libertà, l’indipendenza, l’integrità territoriale e la ricostruzione”. Chiosa finale: “la Russia resta l’unico ostacolo a una pace giusta e duratura”. Documento fatto circolare appena dopo la diffusione della notizia della telefonata intercorsa tra Berlino e Mosca. Che Scholz ha deciso di fare per provare ad avviare un processo politico-diplomatico che possa portare alla fine del conflitto. O quanto meno a un cessate il fuoco. Iniziativa che il cancelliere si è industriato a varare di fronte al crescente malumore dell’opinione pubblica tedesca. La Germania è il paese che ha pagato di più la scelta della nuova “confrontazione” con la Russia, non solo in termini economici. Alla stagnazione, al rischio recessione, che assilla l’ex locomotiva germanica, si è infatti abbinata una crisi politica profonda che porterà alla fine di febbraio a elezioni anticipate. Una rarità nella storia tedesca del secondo dopoguerra. Ma la giravolta di Scholz, per quanto nell’aria, ha avuto il torto di spiazzare i colleghi europei. Convinti che con il ritorno di Trump alla Casa Bianca un approccio differente si renderà inevitabile in politica estera, si sono scagliati contro il cancelliere. La sensazione è che la motivazione dell’irritazione nei suoi confronti sia soprattutto nell’aver anticipato le mosse di qualcun altro. Riproponendo Berlino – e magari non Parigi, non Londra, non Bruxelles – nel rango di principale interlocutore europeo del rieletto tycoon. Quanto al governo italiano, se pensava di traghettarsi senza problemi da Biden a Trump puntando sulla carta-Musk, potrebbe ritrovarsi deluso. Nelle stesse ore in cui il G7 proclamava l’impegno “senza se e senza ma” a Kiev, da Elon Musk giungeva infatti una nuova sferzata a Zelensky. Bollato come umoristico per aver affermato che “nessuno può imporre all’Ucraina di sedersi al tavolo dei negoziati” perché “l’Ucraina è un paese indipendente”. A scanso di equivoci l’uomo che pure ha fornito a Kiev i suoi satelliti aggiungeva un vecchio articolo della BBC che presentava Zelensky come un “comico che non aveva alcuna esperienza di politica”. Seguiva l’ennesimo passo in avanti di Biden in termini militari a favore di Kiev, con l’autorizzazione a usare i missili a lungo raggio americani anche in territorio russo. Decisione molto contrastata tra i consiglieri del presidente uscente, il quale ha alla fine optato per questa misura limitandola, viene fatto intendere, alla sola regione russa di Kursk. Per colpire le truppe nord-coreane lì dispiegate – è la spiegazione – e mandare un segnale forte a Pyongyang. In realtà Kiev ha subito utilizzato gli Atacms per colpire altrove. Decisione, quella di Biden, fuori tempo massimo, che non è piaciuta all’inner circle di Trump. Suo figlio, Donald jr, ha accusato pubblicamente il complesso militare-industriale e Biden di voler “far partire la Terza guerra Mondiale”. Biden sa di essere un’anatra zoppa e nell’incontro che ha avuto con Xi Jinping a margine del vertice Apec appena concluso in Perù ha dovuto ascoltare dal leader cinese l’intenzione “della Cina di collaborare con la nuova amministrazione statunitense per mantenere la comunicazione, espandere la cooperazione e gestire le divergenze”. Consueto pragmatismo orientale che si contrappone alla verve individualistica e emotiva dei politici europei. Poco inclini, in questa fase, a confrontarsi con le evoluzioni in corso a livello globale. Lo spiega Pascal Boniface, nel suo focus sull’Europa alle prese con l’era Trump-2. E lo illustra Daniele Mancini nella sua analisi dello sviluppo capillare del sistema indiano.