Opinions #48/23

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Storia di una rivoluzione

Il ricordo celebrativo che è stato generalmente proposto in occasione dell’anniversario della rivoluzione di Kiev, che dieci anni fa venne battezzata EuroMaidan, ha senz’altro avuto il pregio della tempestività.

Tempestivo, perché a dieci anni esatti dall’inizio delle proteste che diedero avvio alla lunghissima stagione di contestazione – culminata, a febbraio, con la battaglia di Kiev, oltre cento morti, la fuga del presidente Yanukovich e la nascita di un governo di segno opposto – la rotondità dell’anniversario ha coinciso con il conflitto ad alta intensità in corso tra Russia e Ucraina. Diventando, la ricorrenza, funzionale per dare profondità storica alla rivendicazione ucraina di una piena e assoluta indipendenza da ogni cointeressenza russa. Di più, la rivolta iniziata nel novembre del 2013 è stata ricordata come espressione, al tempo stesso, di un fiero nazionalismo antirusso e di una crescente intenzione di fare parte del mondo europeo e occidentale, adesione alla Nato compresa. Il racconto di dieci anni di lotta, che ha comportato la perdita della Crimea e di buona parte del Donbass, ha generalmente consentito di proporre la scelta di Kiev come frutto di una antica aspirazione, totalmente autoctona. Così come solo ucraina, di conseguenza, dovrebbe essere la scelta di continuare la guerra, anche oltre ogni ragionevole convenienza. Ciò che settimana dopo settimana risulta sempre più difficile da condividere per gli alleati del presidente Zelenski, a cominciare dagli Stati Uniti.

La celebrazione di EuroMaidan è stata tempestiva ma avrebbe potuto essere più completa. Così risulta monca della sua genesi, che risale al decennio precedente: la Rivoluzione Arancione. Vero momento di svolta nella vita politica e geopolitica di un paese fin lì vissuto, e percepito, come costola della Russia. Lo shock di quella prima e prolungata protesta di massa nel cuore della capitale, per contestare il risultato delle elezioni presidenziali del 21 novembre 2004, è riconosciuto come il turning point nei rapporti tra Kiev e Mosca. Più esattamente, nel braccio di ferro tra l’Occidente e la Russia per definire la rispettiva influenza sull’Ucraina.

Interessante sarebbe stato completare il contesto in cui si è attivata allora la piazza di Kiev, ripercorrendo il trend che stava facendo il suo corso in quella fase storica. Ben prima che Yanukovich, nel 2013, indeciso tra le lusinghe non solo economiche di Bruxelles e quelle non solo geopolitiche di Mosca finisse un po’ come l’Asino di Buridano per perdere tutto, il “progetto Ucraina” era già stato definito altrove.

Con la lunga esperienza maturata nei Balcani e poi a Bruxelles, Ian Traynor, scozzese, giornalista di punta del Guardian, il 26 novembre 2004 metteva in sequenza i passaggi che avevano portato a quella straordinaria protesta popolare. Vale la pena di rileggerlo:

 

“L’Ucraina, tradizionalmente passiva nella sua politica, è stata mobilitata dai giovani attivisti democratici e non sarà mai più la stessa. Ma mentre i vantaggi della ‘rivoluzione delle castagne’ ricoperte di arancione vanno all’Ucraina, la campagna è una creazione americana, un esercizio sofisticato e brillantemente concepito di branding occidentale e marketing di massa che, in quattro paesi in quattro anni, è stato utilizzato per cercare di salvare elezioni truccate e rovesciare regimi sgraditi. La campagna è stata utilizzata per la prima volta in Europa, a Belgrado nel 2000, per sconfiggere Slobodan Milosevic alle urne.

Richard Miles, l’ambasciatore americano a Belgrado, vi ha svolto un ruolo chiave. E l’anno scorso, in qualità di ambasciatore americano a Tbilisi, ha ripetuto lo stesso trucco in Georgia, insegnando a Mikhail Saakashvili come abbattere Eduard Shevardnadze. (…) L’esperienza acquisita in Serbia e Georgia (…) è stata preziosa nel complotto per sconfiggere il regime di Leonid Kuchma a Kiev. L’operazione – progettare la democrazia attraverso le urne e la disobbedienza civile – è ora così astuta che i metodi sono maturati fino a diventare un modello per vincere altre elezioni popolari.

(…) Il National Democratic Institute del partito democratico, l’International Republican Institute del partito repubblicano, il dipartimento di stato americano e USAid sono le principali agenzie coinvolte in queste campagne di base, così come la ONG Freedom House e l’istituto per la società aperta del miliardario George Soros.

(…) Freedom House e l’NDI del partito democratico hanno contribuito a finanziare e organizzare il ‘più grande sforzo di monitoraggio delle elezioni regionali civili’ in Ucraina, coinvolgendo più di 1.000 osservatori addestrati. Hanno anche organizzato exit poll. Domenica sera quei sondaggi davano a Yushchenko un vantaggio di 11 punti e stabilivano l’agenda per gran parte di ciò che è seguito. Gli exit poll sono considerati critici perché assegnano l’iniziativa nella battaglia propagandistica con il regime, apparendo invariabilmente per primi, ricevendo un’ampia copertura mediatica e affidando alle autorità l’onere di rispondere.

(…) A Belgrado, Tbilisi e ora a Kiev, dove le autorità inizialmente hanno cercato di restare al potere, il consiglio è stato di rimanere calmi ma determinati e di organizzare manifestazioni di massa di disobbedienza civile, che devono rimanere pacifiche ma rischiano di provocare una violenta repressione del regime. Se gli eventi di Kiev confermano le strategie degli Stati Uniti per aiutare altri popoli a vincere le elezioni e a prendere il potere dai regimi antidemocratici, è certo che cercheranno di ripetere l’esercizio altrove nel mondo post-sovietico.

(…)”.

L’articolo di Traynor, col titolo “La campagna statunitense dietro i disordini di Kiev”, apparve sul Guardian cinque giorni dopo l’inizio della ‘rivoluzione arancione’.

Senior correspondant

Alessandro Cassieri