“Perseverare autem diabolicum” dicevano i latini. E possiamo dirlo oggi, di fronte all’atteggiamento assunto da molti politici e liberi pensatori occidentali di fronte alla decisione collegiale della procura della Corte penale internazionale dell’Aja (CPI) di emettere un mandato di cattura internazionale per Benyamin Netanyahu e per il suo ex ministro della Difesa, Yoav Gallant. Un coro di dubbi, di distinguo e di aperta opposizione alla decisione della CPI si è improvvisamente sollevato per mettere in discussione un atto difficilmente contestabile. Le accuse contro Netanyahu e Gallant si basano su ciò che il mondo intero ha potuto osservare, con sgomento, da oltre un anno. Sono passati quasi 14 mesi, e da allora la macchina della rappresaglia israeliana per l’atroce assalto dei guerriglieri di Hamas lanciato il 7 ottobre del 2023 non si è mai arrestata. Decine di migliaia di palestinesi uccisi, ovunque si trovassero, ovunque cercassero riparo. La vendetta per i 1.200 israeliani uccisi è tracimata in un massacro senza fine. Senza distinzione tra guerriglieri e civili. Senza distinzione tra uomini e donne. E soprattutto, senza risparmiare i bambini: vittime certe e assolute. Al seguito di ciò che rimaneva delle loro famiglie o già orfani, affamati insanguinati ustionati mutilati, quando non ancora morti. Le immagini di questi disperati incolpevoli inseguono le coscienze dei più ma non di tutti. C’è da salvare l’amico Netanyahu, c’è da salvare i “nostri valori e i nostri principi” al cospetto della barbarie araba, mussulmana, fondamentalista, terrorista… Improvvisamente gli stessi che si erano compiaciuti della decisione della medesima Corte penale internazionale per il mandato di cattura spiccato l’anno scorso contro il presidente russo per la “deportazione in territorio russo di migliaia di bambini ucraini” contestano adesso la Corte. Perché un conto è Putin, per definizione il “nemico”, un conto è Netanyahu, che è un amico che sì, certo, può avere commesso errori ma che non può essere messo sullo stesso piano degli “orchi”. E comunque Bibi non può essere giudicato adesso che la guerra continua. Si potrà eventualmente farlo dopo, con calma: lasciando intendere che il tempo cancellerà molte cose, smusserà molti giudizi, farà decantare emozioni e indignazione. Non fu così per Slobodan Milosevic, il presidente serbo-jugoslavo prelevato a Belgrado, processato, incarcerato e morto dopo cinque anni nella prigione olandese di Sheveningen. Perseverare è diabolico, ma bisogna accorgersene. Il Washington Post, ancora scosso dal mancato endorsement a favore di Kamala Harris, negato dall’editore Jeff Bezos, si impantana in una difesa a dir poco confusa di Netanyahu: “La CPI è necessaria per aiutare a risolvere i crimini di guerra in Russia, Sudan, Myanmar” è il titolo dell’editoriale del 25 novembre firmato dal comitato di redazione, non da un singolo opinionista. Invece, afferma, “la Corte penale internazionale non è la sede per chiedere conto a Israele”. Perché? “Perché Israele non è membro della CPI”. In realtà i paesi che riconoscono il tribunale penale dell’Aja, istituito a Roma nel 1998 dall’allora Segretario generale Kofi Annan, sono circa i due terzi di quelli che fanno parte dell’Onu. E a non riconoscerlo, come Israele, sono anche Russia, Myanmar, Sudan…oltre a Stati Uniti, Cina, India e una cinquantina di altri. Dunque? Dunque l’errore diabolico si ripropone. Un errore che sta infliggendo ferite gravissime all’Occidente intero. Moralmente si chiama disprezzo del buon senso e delle ragioni altrui. Tecnicamente il suo nome è “doppio standard”. Ovvero, misurare colpe e ragioni secondo convenienza. Giustizia ad assetto variabile. Così come fa il diritto israeliano, che prevede pene diverse se un crimine è commesso da un ebreo o da un arabo (ce l’ha ricordato la gigantesca inchiesta del New York Times Magazine del 16 maggio 2024). Bisogna essere ottusi o autolesionisti, o tutt’e due le cose insieme per non rendersi conto della china intrapresa. Già qualche anno fa Kishore Mahbubani, più volte ambasciatore di Singapore all’Onu, uno dei maggiori analisti politici asiatici, indicava le ragioni della perdita di consenso che l’Occidente stava registrando nel mondo. In uno dei suoi libri, “Occidente e Oriente, chi perde e chi vince” Mahbubani elencava gli sbagli che americani e europei continuavano a compiere nel tentativo di frenare la crescita di rilevanza degli altri mondi, del “Rest” direbbe un’altra mente lucida, in questo caso americana, come Angela Stent. Ergersi a paladini del giusto e del vero, basandosi sugli interessi di parte si sta rivelando un boomerang nei confronti di quel gran numero di paesi che non riconosce più a Washington e Bruxelles la leadership morale che per decenni è stata la chiave della primazia anche economica dell’Occidente. La difesa di Netanyahu e la contemporanea delegittimazione della CPI sono scelte troppo clamorose per non essere destinate a pesare nei futuri rapporti internazionali. Il consolidamento e l’allargamento del gruppo dei BRICS ne è già un segnale rilevante. Il disorientamento di tante leadership euro-atlantiche ne è un altro. Come spiega Pablo Iglesias nel suo esame del caos che regna sulle due sponde dell’Atlantico. E come illustra nella sua analisi Donald Sassoon, che mette al centro del suo focus un altro mito in declino rapido: la relazione speciale tra Londra e Washington.