Cosa fa la grandezza di un personaggio politico? La Storia annovera tra le figure di spicco che hanno plasmato Stati e nazioni personalità che possono essere giudicate in modi diversi, addirittura opposti. Grandi statisti oppure spietati interpreti di un potere senza limiti. Da Giulio Cesare a Alessandro Magno, da Gengis Khan a Tamerlano a Napoleone la rilevanza del loro percorso dipende, a posteriori, dalla dimensione dell’imprinting che hanno dato al loro tempo.
Guerre e trattati di pace, conquiste e armistizi vengono inscritti nella colonna vincente del Grande Decisore di turno. Vincente perchè nella sua epoca sconfisse in successione la maggior parte degli avversari. L’epopea naturalmente prevede un esito spesso tragico, per tradimenti o rilanci esagerati, che sublima catarticamente la dimensione mitica del Nostro.
La morte non improvvisa di Hernry Kissinger, inossidabile ex segretario di Stato americano appena scomparso all’età di 100 anni, non sfugge alla regola. Ma presenta varianti significative. A Henry Kissinger si riconoscono post mortem tutte le doti largamente celebrate nell’ultimo mezzo secolo: diplomatico colto e raffinato, uomo di mondo e politico spregiudicato, un perfetto candidato alla Casa Bianca, se non fosse nato in Germania.
E soprattutto si ricorda di lui il ruolo di protagonista assoluto di un passaggio chiave della guerra fredda: la rottura del fronte comunista internazionale, con l’inserimento del cuneo americano nel momento più critico delle relazioni tra i due imperi rossi, Unione Sovietica e Cina. Kissinger, ovvero il ‘grande tessitore’ della tela diplomatica che avrebbe portato il presidente Nixon a stringere la mano di Mao a Pechino, con l’obiettivo di isolare l’Urss di Breznev.
Non bastasse, a questo successo se ne sarebbe aggiunto un altro: la fine della guerra in Vietnam. Pagina amarissima per gli americani, foriera di disillusioni, contestazioni, ribellioni di un’intera generazione che si sentì tradita nei valori e nei principi di giustizia e solidarietà che credeva scolpiti nel granito Virginia Black americano.
Al cattedratico che guidava la diplomazia Usa, dopo essere stato Capo della sicurezza nazionale, venne per questo assegnato anche un premio Nobel per la pace. Scelta tanto criticata quanto controversa, visto che la guerra era ancora in corso, e sarebbe durata altri due anni. Così forti le contestazioni, pure tra i membri dello stesso comitato Nobel, che Kissinger il premio non lo ha mai ritirato.
E pensare che per portare avanti i segretissimi negoziati Kissinger fingeva di passare il week end in casa, a Washington, per riposarsi, mentre volava clandestinamente a Parigi dove, coperto sotto il cappotto del gigantesco generale Walters, passava dal suo aereo a quello altrettanto segretamente atterrato in terra di Francia dei suoi dirimpettai asiatici.
Diplomazia a livelli epici. Eppure, all’indomani della dipartita, la leggenda di Kissinger deve subire l’ingiuria della critica. Grandi firme e grandi giornali americani hanno voluto mettere in controluce l’altra faccia del più ammirato segretario di Stato della storia d’Oltreatlantico. Con precisione tagliente sono state rievocate le sue scelte, le sue responsabilità, il suo cinismo, il suo disprezzo per le sorti dei vinti o di quelli che riteneva già sconfitti. Così, senza pietà e senza l’ipocrisia che il momento del necrologio solitamente suggerisce, a Kissinger vengono rinfacciati i bombardamenti sui vietnamiti, che per numero di ordigni sganciati fecero impallidire quelli in Europa durante la seconda guerra mondiale. E poi l’invasione segreta della Cambogia, l’uso dei gas nervini in Laos, i colpi di Stato che hanno portato alle dittature militari in Cile e Argentina. E molte altre simili responsabilità.
Una critica feroce che induce a riflettere. Il mainstream che negli ultimi anni ha guidato le campagne di informazione sulle vicende Trump, sulla politica dei dazi, sull’appoggio senza limiti all’Ucraina, sulla sfida alla Cina per Taiwan, e che fino a un mese fa ignorava o dileggiava la candidatura anti-Biden di Robert Kennedy jr, sembra ritrovare il realismo che ha fatto grande la stampa statunitense.
Lo shock è stato l’attacco spietato di Hamas del 7 ottobre che ha rivelato la spietatezza asimmetrica del governo israeliano contro la popolazione civile palestinese. Un trauma che ha (ri)messo in moto lo spirito critico di politici, intellettuali, accademici, perfino dei funzionari della Casa Bianca. Improvvisamente anche gli alleati sono apparsi per quello che sono, quando rispondono al richiamo della foresta, violando di nuovo regole che avevano già infranto. Sarà anche per questo, e per il progressivo consenso che i sondaggi attribuiscono al democratico scomodo Kennedy, se Henry Kissinger viene adesso consegnato alla memoria con tante zone d’ombra, negandogli il riconoscimento di essere stato un Grande americano. E non solo perché era nato in Germania.