Opinions #49/24

Opinions #49 / 24

Stesso teatro di guerra, stessi attori in campo. Dieci anni dopo. È ancora la Siria, ovvero il Levante, il terreno di uno scontro che è un concentrato di proxy wars. L’obiettivo da abbattere è oggi come allora il governo di Bashar al Assad. Il regime che Washington voleva a tutti i costi rovesciare già nel 2013. E ci volle tutta la solitaria determinazione dell’allora presidente Obama per evitare quello che prevedeva il play-book, il manuale per i presidenti americani: bombardare anche Damasco. L’anno dopo ci fu la “sorprendente sorpresa” della comparsa sulla scena dei feroci e inarrestabili guerriglieri dello Stato islamico, il famigerato Isis o Daesh. Il cui leader Abu Bakr Al Baghdadi aveva fatto proseliti mentre era in un campo di prigionia americano nell’Iraq occupato del dopo Saddam. Solo quando i fanatici sostenitori del Califfo sembravano in grado di conquistare anche Baghdad, dopo aver braccato e sterminato la minoranza yazida sulle montagne del Sinjar, la comunità internazionale comprese il rischio che stava correndo con il perverso gioco delle fazioni jiadiste, fin lì tollerate o armate. Con i bombardamenti dell’aviazione occidentale vennero bloccate nell’agosto del 2014 le colonne dell’Isis che avevano sconfitto, senza dover combattere, i soldati del nuovo Iraq. Gli interessi contrastanti di americani, iraniani, francesi, israeliani, turchi e quelli delle petromonarchie del Golfo resero intermittente l’azione contro gli ultra fondamentalisti sunniti che stavano scioccando il mondo con le loro imprese sadiche nei confronti di donne e prigionieri. La guerra tornò allora a concentrarsi in Siria. Quella che era nata come un’altra faccia delle primavere arabe del 2011 si incancreniva tra Raqqa e Aleppo. Quattro anni di combattimenti. Fino all’intervento della Russia, concordato da Putin con Obama a New York, in coda all’Assemblea generale dell’Onu di fine settembre 2015. Seguirono i bombardamenti a tappeto e l’arretramento progressivo dei combattenti dell’Isis nella provincia di Idlib. Assad rimase in carica, lo Stato islamico e le sue diverse declinazioni terroristiche si ritrovarono in ginocchio. Iniziò allora una strategia alternativa mai stroncata di penetrazione nella porosa regione del Sahel. Fino alla sorprendente ricomparsa in Siria della settimana scorsa. In grande stile. Con decine di migliaia di combattenti modernamente armati: dai blindati ai droni. Provocando lo stesso “stupefacente stupore” di allora. Con gli stessi attori e gli stessi flussi di denaro di dieci anni fa. E con un quadro generale che spiega la tempistica dell’assalto ad Aleppo. Meno difeso dagli hezbollah e dagli iraniani, Assad può far conto adesso quasi esclusivamente sulla Russia, che è già impegnatissima sul fronte ucraino. I nemici del rais di Damasco vogliono sfruttare la congiuntura. Il “regime change” piaceva allora a Hillary Clinton per esportare la democrazia e alla Turchia di Erdogan per mettere nell’angolo i curdi dell’Ypg e delle sue coraggiose soldatesse. Piaceva a Israele. Oggi lo si combatte per gli stessi motivi e, in più, per costringere Mosca ad allentare la presa sul Medio oriente e in Africa. E anche per rallentare il grande gioco economico-commerciale della Cina in quel decisivo quadrante. Il paradosso, oggi come allora, è che gli oppositori di Assad (appartenente alla minoranza alauita) vengono guardati con simpatia anche se mescolati con i combattenti fondamentalisti. Quegli stessi sostenitori di guerra santa e sciaria che quando colpiscono in Occidente sono considerati, giustamente, terroristi. La stessa cosa, del resto, era successa in Afghanistan e in Cecenia: ovunque la manovalanza jiadista potesse essere utile per infliggere una spallata all’avversario/nemico. Netanyahu, il capo di governo che si è compiaciuto di aprire contemporaneamente sette fronti di guerra, non può che rallegrarsi. Uno dei suoi nemici giurati è tornato in bilico. E questo potrebbe contribuire a rafforzare la sua popolarità. Effetto che un grande esperto israeliano come Gideon Levy ci aiuta a comprendere, risalendo alle spregiudicate dinamiche innescate dal premier di Tel Aviv. Mentre l’analisi di Aldo Ferrari ci porta a ragionare sulle motivazioni storiche della rivendicazione russa della Crimea. Tornata improvvisamente, insieme alle regioni del Donbass, al centro del possibile negoziato tra Mosca e Kiev, ormai orientata – per bocca dello stesso Zelenski – a rimettere in discussione pezzi fin qui “irrinunciabili” del territorio ucraino

Senior correspondant

Alessandro Cassieri