Opinions #5/25

Opinions #5 / 25

Tutti in attesa di capire quando Trump e Putin si parleranno. Se ci sarà un incontro, magari in Europa, o in estremo oriente. I preannunci del rieletto presidente americano, per quanto contraddittori, sembrano confermare l’intenzione di facilitare l’apertura del negoziato tra Mosca e Kiev promessa in campagna elettorale. Per arrivare intanto a un cessate il fuoco, che sarebbe un successo per Trump, in attesa di un dopo tutto da inventare. A sostegno del tycoon tornato alla Casa Bianca c’è stavolta l’intera squadra presidenziale, dal capo della diplomazia a quello dell’intelligence. C’è soprattutto l’ambizione di Trump di passare alla storia come il presidente che chiude le guerre, argomento pesante per continuare ad accusare l’amministrazione Biden e il mondo democratico che lo ha sostenuto. Ma se è vero che, al secondo mandato, Trump ha deciso di regolare i conti con il deep state, è evidente che quel mondo che ha fatto pressione su Biden ha già iniziato il pressing su di lui. Il “complesso militare-industriale” accusato nel secolo scorso dal presidente Eisenhower di rappresentare un problema per la democrazia è più che mai in azione. Palesemente. L’idea di mettere fine a un conflitto pretestuosamente alimentato non piace ai mastini della guerra fredda 2.0. La debolezza dell’Ucraina, il suo dissanguamento umano ed economico, è una ottima occasione di business dall’altra parte dell’Atlantico. Scrivono Jack Keane e Marc A. Thiessen sul Washington Post (23 gennaio 2025): “Da quando è iniziata l’invasione su vasta scala della Russia, quasi tre anni fa, il popolo americano ha fornito circa 183 miliardi di dollari in aiuti all’Ucraina. Questa assistenza non era carità. Impedire a Putin di sottomettere l’Ucraina era, e rimane, nell’interesse vitale per la sicurezza nazionale degli Stati Uniti. E la maggior parte dei soldi degli aiuti militari è stata spesa proprio qui in patria, rinvigorendo la nostra base industriale di difesa pericolosamente atrofizzata, creando buoni posti di lavoro nel settore manifatturiero e modernizzando il nostro esercito mentre inviamo all’Ucraina armi più vecchie e sostituiamo le nostre scorte con versioni più avanzate”. I soldi stavolta non verrebbero dati direttamente all’Ucraina, dove la corruzione resta incontrollabile. Un fondo internazionale, costituito in primis dai beni russi congelati in Occidente (circa 300 miliardi di dollari), darebbe luogo a un “conto di cooperazione per la difesa dell’Ucraina” gestito dal Pentagono. Nello specifico i vantaggi per l’industria militare statunitense sarebbero evidenti. “Lasciamo che la Russia paghi per creare posti di lavoro per i lavoratori americani che costruiscono carri armati Abrams e veicoli da combattimento Stryker in Ohio; bombe di piccolo diametro, veicoli di supporto Bradley e veicoli di recupero Hercules in Pennsylvania; bombe plananti Joint Direct Attack Munition a lungo raggio in Arkansas, Missouri e Oklahoma; e proiettili di artiglieria da 155 mm in Tennessee, Pennsylvania, Iowa, California e Texas, tra le innumerevoli altre comunità americane che producono sistemi di armi per l’Ucraina. Utilizzare i beni russi congelati per produrre quegli armamenti è una soluzione vantaggiosa per tutti: l’Ucraina ottiene le armi e gli Stati Uniti ottengono i soldi, mentre la Russia sopporta il costo dell’aggressione”. Keane e Thiessen non sono pensatori in libera uscita. Kean, è ex vice capo di stato maggiore dell’esercito Usa e attuale presidente di quell’ ISW (Institute for the Study of War) che dall’inizio della guerra in Ucraina ha plasmato l’informazione in occidente sull’andamento del conflitto; Thiessen è l’ex speechwriter del presidente George Bush jr e dell’allora segretario alla Difesa Donald Rumsfeld. Entrambi organici a quel mondo che fa dell’industria della difesa americana un potere formidabile. La loro visione strategica, pubblicata dal giornale simbolo dei valori democratici, lo stesso che con la sua inchiesta sul Watergate costrinse alle dimissioni Richard Nixon, non si ferma all’industria militare “L’Ucraina può ripagarci. Sebbene la guerra abbia devastato la sua economia, il paese è seduto su circa 26 trilioni di dollari di risorse naturali inutilizzate: petrolio, gas, minerali essenziali e terre rare. L’Ucraina possiede alcune delle più grandi riserve di 22 dei 50 minerali strategici identificati come essenziali per l’economia e la sicurezza nazionale degli Stati Uniti, tra cui le più grandi riserve di uranio in Europa; la seconda più grande riserva di minerale di ferro, titanio e manganese; e la terza più grande riserva di gas di scisto, così come enormi depositi di litio e grafite e terre rare”. Tenendo conto anche della soddisfazione espressa in precedenza da Charles Hatami, supervisore BlackRock Fma e responsabile globale del gruppo di investitori finanziari e strategici (Fsig) impegnati a prestare all’Ucraina 500 miliardi di dollari per la ricostruzione, il quadro si completa: “BlackRock è onorata di assistere il popolo ucraino fornendo consulenza al governo sul lancio del Fondo per lo sviluppo dell’Ucraina. La ricostruzione del paese creerà significative opportunità per gli investitori di partecipare alla ricostruzione dell’economia”. E cosa ottiene in cambio il Gotha di Wall Street (BR, Jp Morgan, McKinsey etc)? Tanto. A cominciare dai 4 milioni di ettari di terreni agricoli, pari a 40 mila chilometri quadrati, che sono già passati sotto il controllo delle società agroindustriali americane. Se a questo pezzo di territorio sul quale Kiev, in cambio di soldi, ha perso la propria sovranità, si aggiunge il 20 per cento ormai sotto il controllo di Mosca, la dimensione geografica del paese risulta ridotta a circa 440 mila kmq. Erano 603 mila prima della guerra sostenuta con Mosca per difendere l’integrità territoriale del paese. Un effetto boomerang che la storia non avrà difficoltà ad attribuire alle componenti ultranazionaliste che così tanto hanno pesato sui destini della popolazione ucraina. Un ruolo che lo stesso presidente americano George Bush padre, nel 1991, alla vigilia dell’indipendenza dall’Unione Sovietica, aveva individuato come dannoso per il paese. Rivolgendosi il 1° agosto di quell’anno cruciale al parlamento, la Suprema Rada di Kiev, non esitò a parlare di “nazionalismo suicida degli ucraini”. Il discorso è passato alla storia come il “Kiev’s speech”. Chissà se Trump lo condivide. In attesa di sapere, Andrew Spannaus ci porta nel labirinto del nuovo “inner circle” di Washington, analizzando gli elementi di criticità che il rapporto, oggi strettissimo, fra Trump e Elon Musk, sta provocando con i primi sostenitori del trumpismo, Steve Bannon in testa. Mentre al nuovo orientamento dell’elettorato dell’est è dedicato il focus di Massimo Nava, concentrato sui risultati emersi dalle urne in realtà così diverse, come la Croazia o la Georgia, accomunate dalla voglia di migliorare le relazioni con la Russia.

Senior correspondant

Alessandro Cassieri