Opinions #50/24

Opinions #50 / 24

Come le rane della favola di Esopo, i leader nazionali di molti paesi si agitano. Sanno di avere poco tempo e che presto arriverà chi li metterà in riga. A partire dal 20 gennaio prossimo. A quel punto si capirà cosa vuole effettivamente fare l’uomo prescelto, non da Zeus, come nella favola, ma da settantasette milioni di elettori americani. A Donald Trump guardano tutti. Chi con speranza, chi con timore, molti con interessata curiosità. Al rieletto presidente, per definizione imprevedibile dopo i primi quattro anni alla Casa Bianca seguiti da quattro tumultuosi anni all’opposizione, si attribuiscono le intenzioni più disparate. Attaccare l’Iran ma anche riallacciare un dialogo con Teheran. Scaricare Zelenski ma anche rafforzarlo in vista del negoziato con Putin. Affrancarsi dalla Siria oppure no. Dare carta bianca a Netanyahu oppure richiamarlo all’ordine. Moltiplicare i dazi sui prodotti cinesi e messicani oppure limitarsi a rivederli. E via elucubrando. Ovvero speculando sulle cose dette in campagna elettorale, che spesso sono scritte sull’acqua. O sulle fughe in avanti di consiglieri veri o presunti. Guardando tutti ai ballon d’essay che il tycoon ha messo in orbita in questa lunga fase di transizione. Che per la sua anacronistica durata consente ancora, a un presidente come Biden ritenuto incapace di sostenere una campagna elettorale, di guidare la prima potenza mondiale. E non per la normale amministrazione. Biden ha sottoscritto decisioni importanti e gravi quando l’intendenza gli stava già svuotando i cassetti. Ha ad esempio autorizzato Kiev a usare i missili a lungo raggio americani in territorio russo. E, rimanendo all’estero, ha continuato a illudere Zelenski di recapitargli l’invito per l’ingresso dell’Ucraina nella Nato. In patria si è poi reso protagonista della più imbarazzante delle decisioni: usare la grazia presidenziale (da ex presidente in fieri) per annullare la condanna destinata al figlio Hunter, che rischiava 17 anni di carcere per aver usato l’influenza del padre per accaparrarsi in giro per il mondo, a cominciare dall’Ucraina, incarichi che gli hanno fruttato 11 milioni di dollari. Così vanno le cose, quando la morale è mobile. E quando la morale è così malleabile, a seconda degli interessi, i terroristi possono essere rapidamente perdonati se funzionali alla causa superiore. Nello specifico: i tagliagole siriani guidati dal capo jiadista al-Jawlani, già ISIS, già al Qaida, già al Nusra può legittimamente sperare di uscire, lui e la sua banda, dalla lista delle organizzazioni terroristiche compilate da Stati uniti e Unione europea. I primi giorni di potere a Damasco senza massacri e con molte rassicurazioni sulla imposizione di una sharia (legge islamica) non fondamentalista sono bastati a qualche grillo parlante britannico per evocare il ripristino della reputazione. Chi ha sgozzato, decapitato, messo in gabbia e bruciato vivi gli “infedeli” trovati lungo la strada può essere diversamente considerato, adesso che insieme agli oppositori armati di Assad hanno messo fine al suo lungo regime. Così i terroristi di ieri diventano i guerriglieri di oggi, e nel cambio di definizione c’è tutto. “Vedremo cosa deciderà Trump” è comunque il mantra che si rincorre da una cancelleria all’altra. Intanto, come le rane di Esopo, ci si agita nello stagno. Ciascuno nel suo. La presidente della Georgia, Salomé Zourabichvili, ha perso con le elezioni politiche del mese scorso la maggioranza che la sostiene, ma decide di non riconoscere il risultato (considerato sostanzialmente corretto dagli osservatori internazionali), agita la piazza e si autoproclama unica istituzione legittima del paese, negando al parlamento neo-eletto il potere di nominare il suo successore. In Germania il candidato cancelliere della CDU, Friedrich Merz, del partito che fu della Merkel, gioca al rialzo della tensione con Mosca preannunciando la consegna all’Ucraina dei micidiali missili Taurus. A Bruxelles il presidente del Consiglio, il socialista portoghese Antònio Costa, appena insediato non esita a fare propri gli annunci più ruvidi all’indirizzo della Russia. E via preannunciando, nel grande caos in attesa di organizzazione che in questa fase è l’occidente euro-atlantico: il mondo di valori che sembravano irrevocabilmente attrattivi per il resto delle nazioni. Salvo scoprire, appena qualche giorno fa, che non è esattamente così. Sembrava uno scherzo degno di Orson Wells, con la Corea del Sud che lanciava un grido disperato per il contenimento del comunismo. In televisione compariva un signore pallido che sembrava Yoon Suk Yeol. Pochi minuti per capire se si trattasse del primo sberleffo in grande stile dell’Intelligenza Artificiale: ci si rendeva conto invece che era proprio lui, il presidente sudcoreano in carica da due anni. Convinti come eravamo che dopo la caduta del Muro di Berlino non ci fosse più alternativa ideologica ai “nostri principi e ai nostri valori” ci siamo ritrovati ad ascoltare l’appello accorato di un leader amico, a capo di uno dei paesi più fidati di Washington, un pilastro della strategia americana nell’indo-pacifico. Yoon ci ha rivelato che allo scoccare del primo quarto del XXI secolo il comunismo, nella sua interpretazione più parossistica e paradossale, quella para-religiosa di Pyongyang e dei tre Kim che si sono endogamicamente passati il potere, rischia di essere attraente per gli ultra capitalisti del Sud. Le formiche operose che tra un colpo di Stato e una controllata democrazia, hanno trasformato negli ultimi quarant’anni un paese mutilato in una potenza industriale e in una semi potenza economica. “Dobbiamo proteggere il nostro paese dalle forze comuniste, eliminare gli elementi comunisti presenti in parlamento” è stata la premessa di Yoon. Che subito dopo ha dichiarato la ‘legge marziale d’urgenza’. Come nei peggiori momenti del suo paese, come un qualunque golpista africano di oggi. Lui, il leader (anch’egli senza maggioranza in parlamento) di un paese coccolato da Biden in funzione anticinese, scelto per ospitare otto mesi fa il “Summit per la Democrazia”, che ricorre all’armageddon istituzionale caro ai putchisti. Salvo piegarsi e fare marcia indietro di fronte alla reazione dei partiti di opposizione e alle proteste della piazza. Così vanno le cose in attesa dell’insediamento alla Casa Bianca di Trump. Si guarda avanti, come fa Francisco Borba Ribeiro Neto, cercando di scrutare l’orizzonte sudamericano dopo l’impatto del Trump-2. E si guarda malinconicamente indietro, come fa Massimo Nava analizzando l’autobiografia di Angela Merkel. Un personaggio chiave della scena internazionale che a tre anni dall’uscita di scena sembra incapace di uscire da un imbarazzato riserbo.

Senior correspondant

Alessandro Cassieri