Note di giubilo dalle varie cancellerie europee hanno accompagnato la decisione dell’Ue di aprire formalmente la procedura di avvio dei negoziati per l’adesione di Ucraina e Moldova nel club di Bruxelles. Un club sempre meno esclusivo, nel quale si promette l’ingresso anche ai paesi dei Balcani occidentali e perfino alla lontana, caucasica, Georgia. Da 27 stati membri l’Unione europea potrebbe allargarsi fino ad accoglierne 35.
I commenti entusiasti del poker comunitario (Von der Leyen, Michel, Borrell, Metsola), ormai a fine mandato, appartengono alla tradizione eurocratica: magnificare una decisione, minimizzarne le difficoltà attuative, ignorare le problematiche connesse.
In questo caso, rispetto alla tradizione, c’è qualcosa di più. L’enfasi viene condivisa oltreoceano. A Washington si celebra la scelta degli europei come saggia e doverosa. I media del mainstream si tengono al passo, sottolineando la portata storica dell’evento. Che, allo stato attuale, è soprattutto ‘potenziale’. Volendo essere realisti si dovrebbe dire ‘ipotetico’.
Non tanto per i restanti paesi dei Balcani ancora fuori dall’Ue, per i quali la continuità geografica gioca a favore. Quanto per le due repubbliche al di qua del Mar Nero, Ucraina e Moldova. Per loro è concreto il rischio di veder finire su un binario a scartamento ridotto la propria candidatura. A mettere sull’avviso è il precedente della Turchia.
Entrata a far parte della Nato nel 1952, la porta d’Oriente ha visto riconoscersi un trattato di associazione all’Unione Europea nel 1963 e solo un quarto di secolo più tardi (1987) l’avvio dei negoziati di adesione. Sessant’anni sono trascorsi con le rassicurazioni di Bruxelles seguite dai suoi colpi di freno.
Uno stop-and-go che ha logorato ogni sforzo diplomatico. L’ultimo momento favorevole per entrare in Europa i turchi lo ricordano bene. Era il 2002 e al consiglio europeo di Copenaghen Erdogan arrivò convinto di incassare un sì atteso da decenni. Puntavano molto sul capo del governo italiano Berlusconi, il quale aveva preannunciato il suo sostegno alla causa turca, ma che di fronte alle rinnovate perplessità soprattutto di Francia e Germania, ovvero di Chirac e Shroeder, evitò di insistere.
Dopo quella delusione Ankara decise che la sua proiezione internazionale non sarebbe più stata, prioritariamente, verso l’Europa. E da allora, coerentemente, la geopolitica turca si è orientata verso il Medio Oriente, la Russia e il Centroasia.
Alla Turchia, non dichiaratamente, si è continuato a contestare la sua natura bi-continentale, ovvero non omogenea. Con una parte europea, che fa capo a Istanbul, diversa e culturalmente quasi in contrapposizione con quella anatolico-asiatica. Un paese per di più musulmano, come a maggioranza musulmana sono però anche l’Albania e la Bosnia Erzegovina, ora a un passo dall’Ue.
Alla Turchia, ogni qualvolta la sua adesione appariva vicina, è stato opposto il principio, non rispettato, della pacificazione interna. La questione curda, che riguarda una cospicua minoranza della popolazione (il 20 per cento circa) concentrata nel sud-est del paese, ha costituito per l’Unione europea un vulnus non superabile. L’UE non accetta l’ingresso di paesi che abbiano al loro interno conflitti territoriali in corso. Un principio dirimente anche per l’altra organizzazione sovranazionale basata a Bruxelles, la Nato.
Problema, dunque, che si presenterà per l’Ucraina ma anche per la Moldova, che ha più irrisolto che mai il contenzioso con la regione indipendentista della Transnistria.
E allora che valore dare alla decisione della settimana scorsa? Probabilmente quello che si è colto nei commenti circolati negli Stati Uniti: un sostegno morale nel momento più drammatico per la leadership ucraina. Senza più la garanzia di finanziamenti e armamenti illimitati da parte di Washington, senza la certezza di aiuti economici e militari a medio termine da parte dell’Europa, con una controffensiva che dopo cinque mesi di stallo si è trasformata in strategia prevalentemente difensiva, con l’inverno al freddo e al buio che incombe, con i malumori che crescono nella società, nei gruppi dirigenti e nelle stesse forze armate, la promessa di un ingresso in Europa ha il sapore di un tonico per Zelenski. “Una pacca sulla spalla” ha scritto qualcuno.
Una promessa, forse un miraggio.