Dieci anni fa la Siria era un banco di prova umanitario per l’Europa. Milioni di persone in fuga dalla guerra. Una guerra innescata da quel grande abbaglio che furono le ‘primavere arabe’. Era il 2011 e la caduta di Ben Ali in Tunisia e poi di Gheddafi in Libia e di Mubarak in Egitto, sembrava disegnare un orizzonte all’insegna della democrazia per quella vastissima mezzaluna che dal Marocco si avventura nel cuore del grande Medio Oriente. Un abbaglio, appunto. I venti di rivolta contro i regimi diversamente sostenuti dall’Occidente si trasformarono in tempesta. Repressione e restaurazione nei casi migliori. Conflitti endemici in quelli peggiori, come in Libia, Siria, Yemen. “Una grande potenza non può non fare. Meglio sbagliare che restare fermi” era la visione sostenuta da Hillary Clinton, segretario di Stato, nonostante i dubbi e le riserve del presidente Obama. Dieci anni dopo, in una regione in fiamme, si riparte dalla Siria. Non solo l’Europa, alle prese con l’azzardo del rinvio in patria dei siriani fuggiti allora dal conflitto, ma anche gli strateghi d’oltre Atlantico. Con un doppio e speculare dubbio che sta mettendo in imbarazzo il mondo frastornato che ruota intorno a Bruxelles e quello in cerca d’autore che a Washington attende l’insediamento alla Casa Bianca di Trump. In sintesi, per gli europei: la Siria del dopo-Assad è ora un paese sicuro e i profughi, ospitati in Europa o parcheggiati a caro prezzo in Turchia arricchendo il bilancio di Ankara, possono essere rimandati nel proprio paese? Il secondo, che solletica i think-tank americani e i loro sponsor, riguarda direttamente la nuova leadership a Damasco: quei terroristi della galassia jihadista (Isis, al Qaida, al Nusra) che mescolandosi con l’opposizione hanno trasformato per anni la Siria in un campo di battaglia senza limiti con l’obiettivo di rovesciare il regime laico di Bashar al-Assad, presidente-dittatore un tempo ben introdotto nelle cancellerie europee, da Parigi a Roma a Londra, dove da studente conobbe la futura moglie, Asma, abile compagna nelle relazioni internazionali. A Washington il dibattito è portato all’essenza: che fare con al-Jolani e la sua banda? L’alternativa è considerarli per quello che sono stati, feroci tagliagole al grido “Allahu akbar” (Allah è grande), o trattarli come nuovi interlocutori per recuperare uno spazio di manovra insperato in un quadrante finora appannaggio di Russia e Turchia. Il tam-tam sembra indicare la forte tentazione di optare per il secondo scenario. Principi e valori, in quel caso, saranno messi tra parentesi. Così come tra parentesi è finito il giudizio sull’estremismo militarista del premier israeliano. Netanyahu, prima autorizzato da Biden e adesso fin troppo sicuro del sostegno di Trump, è protagonista di una bulimia senza precedenti. Dopo aver moltiplicato i fronti di guerra, all’indomani degli attacchi di Hamas del 7 ottobre 2023, portando i suoi colpi in Cisgiordania e Iraq, Yemen, Libano e Iran, si è lanciato negli ultimi giorni alla conquista di territori mai appartenuti allo stato ebraico, occupando sezioni crescenti del territorio siriano, dopo averne decimato l’intera forza aerea e navale. In chiave “preventiva”. Una prova di forza che si aggiunge alle altre e che fa salire la tensione con l’altro pretendente nell’area, il presidente turco Erdogan. Il tutto nel sostanziale silenzio dei governi europei. Che in ordine sparso si limitano a preannunciare il riconoscimento unilaterale dello Stato palestinese. Punture di spillo alle quali Netanyahu reagisce a modo suo e della sua amministrazione. Chiudendo ad esempio l’ambasciata in Irlanda per punire il governo di Dublino, colpevole di aver sostenuto la richiesta del Sudafrica presso la Corte internazionale di Giustizia dell’Aja di accertare gli estremi di una condotta, contro i civili inermi, che a Gaza possa configurarsi come genocidio. Gli amici possono essere criticati ma non messi in discussione, è la logica vigente in Occidente. Così il giudizio sul presidente sudcoreano Yoon Suk-yeol che ha proclamato la legge marziale per fronteggiare la minaccia comunista nord-coreana resta soft. Facile immaginare quale sarebbe stata la mobilitazione politico/diplomatica/mediatica/militare nel caso di una analoga, azzardata iniziativa assunta da un leader non amico. La polarizzazione porta a questi eccessi. A prendere, ad esempio, per buone le denunce di Zelenski quando parla dei diecimila soldati nordcoreani arrivati in soccorso delle truppe russe perché ormai decimate, e prendere per buona la stima dello stesso loquace Zelensky quando parla di ottocentomila (!) soldati russi dispiegati in Ucraina. Sulla nebbia di guerra alimentata da questo tipo di retorica si concentra Alberto Bradanini, già ambasciatore a Pechino e profondo conoscitore della realtà estremo-orientale. Mentre sugli affanni di Emmanuel Macron, presidente che sembra aver accelerato il declino suo e della Francia con scelte solitarie e controproducenti, si sviluppano le analisi e le previsioni di un politologo eccellente come Marc Lazar.