Roma torna a essere caput mundi. Con l’apertura della Porta santa, l’avvio del Giubileo, l’arrivo previsto di una trentina di milioni di turisti. Tutto contribuisce, in questi giorni, a fare dell’altare di Pietro il pulpito ideale per il messaggio universale di Papa Francesco, nel segno della speranza per un presente migliore. Eppure questo Pontefice non ha atteso questo momento straordinario per rivolgersi ai fedeli e ai potenti della Terra. Il suo appello accorato, angosciato, arrabbiato lo ha rivolto decine di volte. In un crescendo che, da solo, ci dice quali forze il capo spirituale dell’Occidente debba affrontare, in Occidente. Papa Bergoglio è stato il primo, dieci anni fa, a percepire e a denunciare i rischi di una “Terza guerra mondiale a pezzi”. Parole apprezzate per il coraggio visionario e poi archiviate. Sempre Bergoglio è stato il primo e il più autorevole a sollecitare il negoziato che soffocasse sul nascere un conflitto potenzialmente devastante come quello avviato tra Russia e Ucraina. Ricevendo apprezzamento e pochissimo seguito. La sua riflessione, poi, sulle concause all’origine di quella guerra (“l’abbaiare della Nato alla porta della Russia”) non ha ricevuto nemmeno l’apprezzamento. Archiviata come un lapsus. Stessa sorte per le ripetute richieste di stop alla fornitura delle armi e per il reindirizzo di tante energie e risorse a favore di un cessate il fuoco. In Ucraina come in Palestina. Appelli totalmente ignorati. Al punto che solo la denuncia clamorosa, nei giorni scorsi, dell’ostilità del governo israeliano all’ingresso a Gaza del Patriarca cattolico di Gerusalemme, ha alla fine permesso all’arcivescovo Pizzaballa di celebrare messa tra le macerie di un mondo per il quale Bergoglio continua a esprimere sofferenza, di fronte “a tanta crudeltà, ai bambini mitragliati, ai bombardamenti di scuole e ospedali”. Sfidando per questo l’ennesima reazione scomposta di un esecutivo ormai in piena deriva nazionalista/fondamentalista come quello guidato da Netanyahu. Allora, in queste giornate che la tradizione cristiana e occidentale vuole dedicate sì alla celebrazione dei riti religiosi, ma anche a un esame di coscienza individuale, una riflessione si impone. Lo sfavillio di piazza San Pietro, anche quest’anno presidiato da un abete sempre più illuminato, l’attivismo degli operatori turistici, la massima allerta antiterrorismo, il sottobosco affaristico che nella tradizione di questa città unica puntualmente digerisce la manipolazione di sacro e profano, sono il contorno o la sostanza del Natale contemporaneo e del Giubileo dell’Anno Domini 2025? Quale coerenza c’è tra la dichiarata devozione al Pontefice di tanti leader politici e la loro prassi? E’ più profondo il loro legame con l’erede di Pietro o con lo Stato profondo nazionale e multinazionale? In attesa che l’anno giubilare si dispieghi l’attenzione mondiale è concentrata sul cambio della guardia al vertice del potere americano. Il passaggio di consegne del 20 gennaio tra Biden e Trump viene visto come un momento di svolta. Cosa comporterà concretamente è ancora difficile da capire. Di sicuro la dichiarata intenzione di Trump e di Putin di volersi incontrare “il prima possibile” è un elemento nuovo, dopo la dichiarata ostilità ad personam, condita di insulti, ostentata da Biden nei confronti del presidente russo. Ma non c’è solo la questione ucraina. Un altro pezzo di mondo, così come abbiamo visto la settimana scorsa con l’America latina raccontata da Francisco Borba Ribeiro Neto, attende le mosse del rieletto Trump. E’ l’Africa: preoccupata nell’analisi di Tim Murithi per l’approccio trumpiano al continente. Mentre l’analisi di AntonGiulio de Robertis ci riporta agli equivoci e agli errori che hanno condotto all’attuale situazione internazionale. Centrata sulle buone intenzioni e sui cattivi risultati della relazione tra Stati Uniti e Unione Sovietica ai tempi di Bush e Gorbaciov. Un amarcord intriso di inquietudine nel parallelo tra la Germania del 1919 e l’URSS del 1991.