Un articolo di: Riccardo Fallico

Nei primi giorni di marzo 2023 i mercati di tutto il mondo si sono trovati a rivivere l’incubo della crisi finanziaria del 2008. Con una velocità, che ha lasciato senza fiato moltissimi operatori, nell’arco di quindici giorni negli Stati Uniti si sono susseguiti i fallimenti della Silicon Valley Bank e della Signature Bank. Come se non bastasse, poi, a inizio maggio un’altra banca, la First Republic Bank, si è trovata ad affrontare un repentino crollo delle proprie azioni in borsa e un altrettanto repentina acquisizione da parte di JPMorgan.

La crisi bancaria negli USA: non circoscritta né regionale

Mentre tutti eravamo ancora nell’occhio del ciclone, si susseguivano già le prime analisi sulle cause e sulle conseguenze del fallimento di queste banche, che negli Stati Uniti erano considerate banche regionali. Una volta calmatesi le acque, però, gli operatori stessi sono stati costretti ad ammettere che la portata di questa crisi lampo non era affatto circoscritta e non era affatto regionale. Secondo i dati del Federal Deposit Insurance Corporation (FDIC), che è un’agenzia indipendente creata dal Congresso degli Stati Uniti per mantenere la stabilità e la fiducia pubblica nel sistema finanziario nazionale, tra marzo e maggio del 2023, sono stati dilapidati asset per un valore circa 548 miliardi di dollari, penny più penny meno, poco più di quanto era stato dilapidato durante tutto il periodo 2008-2009, quando erano stati bruciati circa 545  miliardi di dollari. Il dato di maggior rilevanza, tuttavia, è la quantità di istituti bancari coinvolti, 3 nel 2023 e 165 nel periodo 2008-2009. Così come allora, l’onda lunga di questo tsunami finanziario made in USA ha avuto ripercussioni su tutti i mercati internazionali, soprattutto nel Vecchio Continente.

Credit Suisse: vittima di massiccia e prolungata fuga di depositi

In concomitanza con i fallimenti negli Stati Uniti, il colosso svizzero Credit Suisse fu salvato dalla concorrente UBS, vista la massiccia e prolungata fuga di depositi, che aveva creato ormai insuperabili problemi di liquidità. Nei primi tre mesi del 2023, infatti, la banca elvetica aveva visto fuoriuscire dalle proprie casse la bellezza di 75 miliardi di dollari, che si erano aggiunti ai 121 miliardi di dollari, che erano stati ritirati dai clienti nell’ultimo trimestre del 2022. I problemi di Credit Suisse erano già noti agli operatori di mercato e di certo non era una novità che la banca non riuscisse a risollevarsi da pessimi risultati di gestione. Per il 2022 Credit Suisse aveva infatti dichiarato perdite per 8 miliardi di dollari. L’acquisizione ad hoc di UBS non ha però fatto magicamente svanire tutti i problemi lasciati in eredità da Credit Suisse. UBS, infatti, a giugno riuscì ad assicurarsi dal Governo svizzero un prestito di 5 miliardi di franchi per coprire le perdite di Credit Suisse, ma, nonostante ciò, a inizio novembre UBS ha riportato una perdita di 785 milioni di dollari USA, in parte derivante dai costi per il salvataggio di Credit Suisse, che ammontavano a 2 miliardi di dollari USA. Una volta che anche la banca elvetica alzò bandiera bianca, l’attenzione si spostò su un altro colosso del settore bancario europeo, Deutsche Bank. La banca tedesca non era mai riuscita veramente a risollevarsi dopo la crisi del 2008 e per cercare di cambiare rotta al suo business si era impegnata in ristrutturazioni lunghe e dolorose, che erano iniziate nel 2019 e che avrebbero dovuto portare a un riequilibrio dei libri contabili e a nuovi profitti entro il 2022. Alcuni degli obiettivi dichiarati erano ristrutturare le divisioni di corporate e investment banking, la revisione dei propri target di capitale minimo necessario per operare e, non ultimo, il taglio di posti di lavoro.

Problemi del settore bancario in Gran Bretagna

Al di la dello stretto della Manica, la situazione non era certo più rosea. La Banca centrale inglese nel corso dei mesi ha cambiato la musica sulla salute del sistema bancario nazionale più di una volta. È passata da “una posizione vigile”, a “il settore bancario inglese è forte e resiliente”, per arrivare alle dichiarazioni di fine ottobre, in cui si dice che “nonostante l’ottimismo, servono nuove misure per evitare che altre banche falliscano”. Queste dichiarazioni seguivano al crollo in borsa all’inizio dello stesso mese di ottobre di Metro Bank  e alle conseguenti contrattazioni per un suo possibile salvataggio, nonostante venisse affermato che Metro Bank non fosse una banca sistemica.

La “corsa agli sportelli”

Quale che sia la congiuntura economica o finanziaria o le scelte azzardate o scorrette, che portano una banca sull’orlo di una crisi, la causa scatenante del rapido fallimento di un istituto creditizio è essenzialmente una. È bene ricordare e sottolineare, che l’attività bancaria è svolta grazie alla facoltà di utilizzare, a discrezione della banca stessa, i depositi dei propri clienti. La cosiddetta “corsa agli sportelli” non è altro che il risultato del crollo di fiducia dei clienti nella capacità di gestione del denaro prestato alla propria banca unita alla paura di perdere tutti i propri risparmi.

La prima vera “corsa agli sportelli” è avvenuta nel 1866 quando la banca inglese Overend, Gurney and Company, a causa delle perdite elevate legate al crollo dei prezzi delle azioni ferrorviarie, dovette sospendere tutti i propri pagamenti. La “corsa agli sportelli” forse più conosciuta, invece, è quella del film “Mary Poppins” di Walt Disney del 1964, scatenata dal rifiuto del filgio di Mr Banks, Micheal, di dare i suoi due penny alla banca dove lavora suo padre, la “Fidelity Fiduciary Bank”.

Le origini delle crisi bancarie cambiano rapidamente

La ricetta della crisi del 2008-2009, ciononostante, differisce da quella del 2023 per “gli ingredienti” forniti dal contesto macroeconomico. Quando Lehman Brothers fallì nel 2008 la congiuntura economica era già debole e questo mise fortissima pressione sulla capacità di prestito del settore bancario, che negli anni precedenti aveva goduto delle riforme di deregolamentazione, promosse dall’allora amministrazione del presidente George W. Bush. Il modus operandi era diventato più “sbarazzino” di quanto era avvenuto nel passato e i problemi dei crediti tossici sono esplosi, quando l’economia entrata in recessione non ha più permesso di concedere prestiti senza garanzie reali sottostanti. Proprio a causa della “deregulation” statunitense dei primi anni 2000, ancora oggi, la prima soluzione che viene proposta in momenti di crisi è quella di rivedere la regolamentazione del settore bancario, non prestando la dovuta attenzione al fatto che forse i problemi risiedono proprio nella politica monetaria dei regolatori. Nel recente passato le basi del degrado del settore bancario sono state poste dalle politiche di tassi di interessi bassi o nulli, e da tutti gli interventi espansivi di politica monetaria delle varie Banche centrali, che con i loro programmi di quantitative easing, non hanno fatto altro che creare una quantità sproporzionata di liquidità. A questo proposito sono significative due statistiche del settore bancario statunitense:

  • nel biennio 2021-2022, sull’onda delle politiche monetarie appena menzionate, secondo i dati del FDIC non ci sono stati fallimenti di istituti di credito negli USA.
  • Secondo quanto confermato da Reuters il processo di assorbimento della liquidità in eccesso ha cominciato a funzionare dopo solo il 9 novembre 2023, quando la Federal Reserve è riuscita per la prima volta dalla fine dell’estate del 2021 a portare i volumi delle operazioni di reverse repurchase agreement al di sotto di 1 trilione di dollari, dai 2,5 trilioni di dollari del dicembre 2022, segnalando così l’effettiva contrazione di liquidità.

Uno studio di McKinsey sulla salute del settore bancario mondiale è stato intitolato “La grande transizione bancaria”. In questo report, datato 10 ottobre 2023, vengono discusse le luci e le ombre del sistema bancario, ma i primi dati che vengono presentati mostrano una stima del ROE in crescita e ben al di sopra del 9%, che stato registrato in media tra il 2009 e il 2023. Le stime parlano anche di profitti per 1,4 trilioni di dollari per l’anno in corso. Ma allora come mai tutte le più grandi banche hanno già preannunciato migliaia di licenziamenti? Wall Street da sola nel 2023 ha già tagliato circa 20000 posti di lavoro e si preannunciano ulteriori tagli nel 2024.

Forse queste misure delle banche segnalano che, malgrado prospettive di guadagni elevati, il settore bancario non è affatto in un ottimo stato di salute. Prima o poi qualcuno dovrà pagare il conto delle politiche monetarie delle Banche centrali. Il surplus di liquidità e i tassi in alcuni casi addirittura negativi, hanno portato le economie mondiali a soffrire della febbre “da inflazione”. Secondo i dati del Fondo Monetario Internazionale nel 2022 l’inflazione mondiale è arrivata a toccare il livello dell’8,9%, mentre nell’ultimo ventennio il picco era stato raggiunto nel 2008 con il 6,36%. Le Banche centrali, Federal Reserve (FED), Banca centrale europea (ECB) a Banca d’Inghilterra (BoE), e fatta eccezione per la Banca del Giappone (BoJ), hanno reputato che il modo più efficace per combattere tempestivamente l’inflazione fosse aumentare i tassi di interesse. La FED ha alzato il proprio tasso di 5 punti, passando dallo 0,25% del 2022 allo 5,25% del 2023; la ECB è passata dallo 0,5% del 2022 al 4,5% del 2023; e infine la BoE è passata dallo 0,5% del 2022 al 5,25% del 2023. È facile intuire che gli aumenti dei tassi del dollaro statunitense, dell’euro e della sterlina hanno indotto anche le Banche centrali degli altri Paesi ad aumentare i propri tassi di interesse, al fine di non dover sopportare più del dovuto “l’esportazione di inflazione” di USA, Europa e Gran Bretagna. Nel 2022, infatti, vi sono stati ben 54 interventi di aumenti dei tassi di interesse da parte delle Banche centrali delle dieci valute più utilizzate per il commercio.

In bilico la credibilità delle Banche centrali

Il risultato è stato la perdita di credibilità delle Banche centrali stesse. La lotta all’inflazione ha portato risultati modesti e, come se non bastasse, il dibattito ha iniziato a vertere sulle prospettive di recessione dell’economia mondiale. Il repentino aumento dei tassi di interesse, se da un lato doveva contrastare la rapida ascesa dell’inflazione, dall’altra parte ha messo a dura prova il sistema bancario, abituato, invece, a margini operativi gonfiati dal risicato costo di finanziamento del denaro. Oltre alle conseguenze sul settore finanziario, le Banche centrali hanno sottovalutato anche la pericolosissima contingenza di inflazione rampante e l’adozione di tassi di interesse ben al di sopra di quelli a cui ci si era assuefatti. La parola che tutti sussurrano, ma che nessuno vuole pronunciare è appunto stagflazione.

Le Banche centrali hanno continuato imperterrite ad usare gli strumenti di politica monetaria per correggere un problema, creandone un altro, senza ascoltare i segnali che vengono dal mercato. Il mandato di tenere sotto controllo l’inflazione non può essere puramente tecnico e non può prescindere da una sana politica economica, viste le conseguenze che le scelte di politica monetaria hanno sull’economia reale. Nel corso dell’ultimo decennio e in maniera culminante durante la pandemia del 2020, le Banche centrali hanno perso la propria indipendenza rispetto ai loro governi, il che, di conseguenza, le ha portate ad auto assumersi poteri e responsabilità sociali e politiche, che non erano mai state prerogativa delle Banche centrali.

Economista

Riccardo Fallico