Le elezioni della settimana scorsa hanno suonato l'allarme per il partito conservatore del premier Sunak, dato per sicuro sconfitto alle prossime politiche. È l'effetto dell'instabilità innescata con la Brexit. Mentre a livello internazionale Londra cerca visibilità alzando i toni con Mosca

Passerà alla storia la tornata elettorale di questo mese di maggio 2024. La storia della Gran Bretagna, e non solo. Secondo gli statistici una sconfitta così clamorosa per i conservatori inglesi non si registrava dagli anni Ottanta del secolo scorso. Ma era un altro secolo, appunto, ed era un altro mondo: con il Regno Unito saldamente all’interno dell’Unione europea, di cui influenzava in maniera rilevante ogni mossa.

Oggi la disfatta del premier Rishi Sunak si consuma in un perimetro ridotto e quindi è ancora più pesante. Il quarto premier dei Tories entrato a Downing street nel giro di cinque anni non solo è a un passo dall’essere a sua volta sfrattato, dopo il voto per le politiche che si terranno nei prossimi mesi, ma con le dinamiche elettorali in corso sembra destinato a regalare al suo partito uno scenario che in molti – tra i suoi alleati – considerano un incubo: un partito sconfitto a sinistra dai laburisti e tarpato alla sua destra dalla versione inglese dell’America first trumpiana, Reform UK.

Un quadro umiliante per il partito che ha portato il Paese in un vicolo cieco. Doveva essere la Global Britain a imporsi a livello internazionale, una volta uscita dalla Ue. Avremo “un ruolo da protagonista nel promuovere pace e prosperità in tutto il pianeta”, prometteva la premier Theresa May. Era il 2016.  Il risultato della Brexit si è invece rivelato peggiore di quanto gli analisti più pessimisti avevano osato prevedere. Sul piano interno l’instabilità politica si è accompagnata a una contrazione del livello di vita dei sudditi britannici, dell’attrattività dello stile di vita made in England, del valore dei suoi asset immobiliari, perfino della varietà della sua offerta alimentare. Tutti ambiti penalizzati dalla rottura con i vecchi soci del club di Bruxelles.

Ma il declino britannico è ancora più vistoso a livello internazionale. Senza tornare a un secolo fa – quando Londra era la superpotenza dell’epoca che controllava un territorio vastissimo che andava dal Canada all’Egitto, dall’Africa del sud all’Indopakistan, all’Australia, fino alla Nuova Zelanda – è sufficiente constatare il peso reale del governo inglese nell’attuale scenario. Isolata in Europa, timida con la Cina, muta sulla guerra a Gaza. La ex superpotenza si ritrova impotente nelle regioni un tempo dominate, a cominciare dal Medioriente, Palestina compresa.

Più che la Brexit, in questo caso, ad avere azzoppato ogni credibilità britannica hanno provveduto le ultime due avventure in quel quadrante. Quando Londra ha voluto essere la ‘mosca cocchiera’ a fianco dell’America di Bush junior nella “guerra preventiva” lanciata da Washington “per esportare la democrazia” in Irak. E quando, appena qualche anno dopo, si è proposta come leader a mezzadria con la Francia di Sarkozy nel sollecitare, perorare e condurre l’altra infelice missione democratica nella Libia di Gheddafi. A fianco di Bush c’era allora il rampante laburista Blair; a festeggiare “la Libia libera”, spalla a spalla con il capo dell’Eliseo, era invece David Cameron nella ventosa Bengasi.

Nonostante i fallimenti, però, nell’isola oltre la Manica a volte ritornano.  Momentaneamente pentito del tragico esito della vicenda libica, Cameron è rientrato in prima linea nelle ultime settimane. Come ministro degli esteri di Sunak sta mettendo il suo rinnovato piglio in un altro contesto ad alto rischio, la guerra in Ucraina. Per favorire una conclusione del conflitto? No, gettando benzina sul fuoco. Ovvero dicendo a Zelenski di utilizzare le armi occidentali anche in territorio russo. Visto l’andamento sul campo, per il capo della diplomazia inglese si può infrangere anche uno degli ultimi tabù, pure a rischio di portare l’escalation con Mosca al punto di non ritorno.

Tutto sommato nulla di nuovo. Come confermato nelle scorse settimane dagli analisti americani sulla base di nuove fonti, fu Boris Johnson (succeduto alla May, a sua volta succeduta a Cameron) a far saltare l’accordo che i negoziatori russi e ucraini avevano raggiunto a Istanbul, grazie alla mediazione di Erdogan, dopo le prime settimane di guerra.

Londra, nel suo declino, gioca la carta dell’azzardo per far sentire la propria voce? Sembra evidente, ma c’è qualcosa di più e di più antico. Che riguarda il sentiment della classe dirigente britannica nei confronti della Russia. Una ostilità che ha accompagnato le relazioni in epoca zarista, quando la contesa si concentrava nel Grande Gioco in Asia. Che è proseguita ai tempi dell’Unione Sovietica, rapidamente elevata da Churchill a minaccia appena conclusa l’alleanza contro il nazismo. È proseguita nella Russia post-comunista.

Eletta comfort zone in tutti i sensi da tutti gli oppositori di Putin – oligarchi in disgrazia, ex spie, leader ceceni – Londra vive l’essenza della sua politica estera in funzione antirussa. Le vale per questo la concessione di importanti riconoscimenti da parte di Washington (un ruolo nell’alleanza AUKUS ai danni della meno docile Francia) ma non l’affrancamento dalla condizione di vassallo. Che pesa nella mentalità britannica, alle prese pure con il disdoro internazionale per la soluzione, poco allineata ‘ai principi e ai valori occidentali’, che vede gli immigrati spediti d’autorità nel lontano Ruanda, governato da trent’anni col pugno di ferro da Paul Kagame.

La monarchia, con i suoi risvolti coreografici e sentimentali, è la fiaba infinita che accompagna da secoli, nel bene e nel male, un mondo che dal suo isolamento ha tratto ragioni di forza e motivi di debolezza. Oggi la favola si presenta nei suoi passaggi più difficili. La malattia del re, quella ancora più sofferta della principessa, la cacciata dei reprobi, la grettezza dei cortigiani. Il lieto fine è in stand by. Ma altri esiti incombono. Alla favola della mosca cocchiera rischia di seguirne un’altra, antichissima, sempre di Fedro o forse di Esopo: quella della rana e del bue. Con ciò che resta del Regno Unito, in modalità rana, appeso al filo dei referendum indipendentisti in Scozia e Irlanda del nord che si profilano all’orizzonte.

Senior correspondant

Alessandro Cassieri